(Egitto) Perché noi rivoluzionari abbiamo perso (Pisoi Al-Qummus, Limes online, 11 febbraio 2013)

11.02.2013 10:45

A due anni dalla prima scintilla, che la fece scoppiare, possiamo oggi affermare che la rivoluzione è fallita. Dopo un biennio di illusioni, nonostante l’entuasiasmo di molti - convinti che il bene avrebbe alla fine trionfato come nei film kitsch egiziani e che la città ideale di platonica memoria sarebbe finalmente nata - quella egiziana è da considerare una delle rivoluzioni più fallimentari della storia.

 

Dopo il famoso discorso di dimissioni di Mubarak, letto dall’ex capo dei servizi segreti 'Umar Sulayman, morto poi in circostanze misteriose negli Stati Uniti, i rivoluzionari avevano creduto che la rivoluzione fosse finita. Dimenticavano che nel XX secolo soltanto venticinque rivoluzioni su centotrenta hanno avuto il successo sperato - la più importante fu quella rumena contro Ceausescu e il suo regime. Causa principale dei fallimenti: la cattiva gestione del periodo di transizione.

 

In quel famoso comunicato, Mubarak aveva delegato al Consiglio supremo delle Forze armate (Scaf) il compito di guidare il paese. Tale decisione era anticostituzionale. L’intelligencija rivoluzionaria non si è tuttavia seriamente opposta. Qui si può collocare l’imbocco della via sbagliata che ci ha portati alla crisi attuale, nella quale i sogni della rivoluzione appaiono spezzati.

 

‘Abd al-Halim Qandil, noto oppositore ed ex coordinatore del movimento Kifaya, ha affermato in seguito che i rivoluzionari si erano accordati per formare un consiglio presidenziale temporaneo il 12 febbraio 2011 - un giorno dopo l’annuncio - incaricato di gestire il paese dopo le ormai imminenti dimissioni di Mubarak. Tuttavia, il passaggio di consegne all’esercito sorprese tutti, affossando quell’idea. Dal momento che l’esercito godeva di una buona reputazione presso gli egiziani, le voci rivoluzionarie contrarie al passaggio di poteri e che chiedevano di non abbandonare la piazza fino alla costituzione di un Consiglio presidenziale di transizione furono messe a tacere dalla maggioranza dei rivoluzionari, che guardava di buon occhio al passaggio del potere da Mubarak allo Scaf.

 

Questa buona reputazione dell’esercito era dovuta soprattutto all’idea dei militari che gli egiziani si era fatti durante la guerra del 1973. Tuttavia, alla guida dell’esercito non c’erano più i comandanti di quella guerra. Gli egiziani dimenticarono che la corruzione che si era diffusa come un cancro in tutte le istituzioni del paese non aveva risparmiato l’esercito e i suoi vertici. Basti considerare la quantità crescente di progetti imprenditoriali gestiti direttamente dall’esercito, di cui gli egiziani non sanno nulla e che assicura ai generali introiti vertiginosi. Non era dunque nell’interesse dell’esercito che la rivoluzione penetrasse al suo interno, perché avrebbe potuto di metterne a nudo la corruzione.

 

Quando i vertici dell’esercito iniziarono a presentire la fine di Mubarak, si trovarono davanti due opzioni: o aggrapparsi al presidente e scommettere sul fallimento della rivoluzione oppure rimanere neutrali, aspettare il risultato e saltare sul carro del vincitore, anche se sgradito. L’esercito prese le parti della rivoluzione, anche se solo formalmente, con la prospettiva di contenerne e infine annullarne gli effetti politici. Nello stesso tempo, i giovani rivoluzionari abbandonarono le redini della rivoluzione cullandosi nella fama mediatica. Molti di loro provenivano dalla media borghesia. Avendo perso il lavoro per la pressione dei servizi segreti, considerarono i grandi compensi che ottenevano dalle televisioni come corrispettivo celeste per le ingiustizie subite durante l’epoca di Mubarak. Ovviamente, era difficile resistere all’improvvisa fama, soprattutto considerando che la maggior parte di loro non superava i trent’anni di età. Esaltati come eroi, ospitati continuamente nei canali televisivi per raccontare ciò che avevano subÏto prima della rivoluzione, finirono per allontanarsi dal percorso rivoluzionario.

 

In quel momento, sulla piazza c’erano due grandi potenze che si contendevano la vittoria: i militari e le correnti islamiche rappresentate dai Fratelli musulmani e dal fronte salafita. I veri eroi della rivoluzione, le correnti rivoluzionarie e i giovani della rivoluzione, si erano dispersi e frammentati, anche per l’assenza di un leader carismatico. I partiti religiosi erano divisi in due grandi blocchi - malgrado le loro divisioni interne - ma concordi sulla maggior parte delle questioni strategiche. Si ricordi che i giovani di quelle organizzazioni sono addestrati alla politica dell’obbedienza del leader secondo il famoso principio salafita "sii per il tuo muršid [guida religiosa] come un cadavere nelle mani di chi è addetto a lavarlo". Dopo poco tempo le due grandi correnti che si contendevano il potere trovarono un accordo per spartirselo. La corrente rivoluzionaria, rappresentata dai liberali e dai socialisti, rimase a guardare la spartizione della torta.

 

Lo Scaf iniziò a mostrare gli artigli quando decise di abbandonare la più importante istanza rivoluzionaria, cioè la nuova costituzione, e volle indire un referendum nel quale far scegliere al popolo tra una costituzione nuova di zecca e l’introduzione di alcuni emendamenti. Nello stesso tempo concesse la creazione di partiti a base religiosa in aperta violazione della Carta vigente.

 

Questa decisione faceva parte di un accordo non scritto per far fuori le forze rivoluzionarie. La corrente islamista chiese apertamente di non processare i militari e di non svelare o contestare i patrimoni personali, offrendo ai più esposti un salvacondotto sotto forma di prepensionamento. Fu così che l’esercito lasciò mano libera agli islamisti e distrasse il popolo in lotte periferiche che nulla avevano a che fare con gli obiettivi della rivoluzione. Allo stesso tempo, lo Scaf assicurava alle forze laiche la protezione dalla violenza dei gruppi fondamentalisti, mentre liberava dalle prigioni un gran numero di terroristi o faceva rientrare in Egitto persone fuggite per reati penali o finanziari, al solo scopo di rafforzare il proprio potere.

 

Le correnti islamiste che miravano al potere a qualsiasi costo si allearono con lo Scaf e lo difesero chiedendo al popolo di appoggiarlo in nome del ritorno a una presunta stabilità del paese. La corrente rivoluzionaria, che non aveva appoggi potenti in Egitto (e probabilmente nemmeno all’estero), non si alleò all’inizio con nessuno dei due blocchi, considerandoli entrambi nemici della libertà e dello Stato laico. L’accordo militari-islamisti catapultò così il paese in una situazione peggiore di quella prerivoluzionaria.Lo Scaf iniziò ad applicare i primi articoli dell’accordo nominando una commissione il cui presidente, Tariq al-Bisri e la maggior parte dei membri, il più famoso dei quali era l’avvocato Subi Salih (noto come "Subi Fallutha"), appartenevano alla corrente politica islamista. I gruppi islamisti fecero di tutto per indurre gli elettori a votare "sì" agli emendamenti costituzionali, sfruttando il sentimento religioso degli egiziani: il rifiuto avrebbe significato l’inferno che aspettava tutti coloro che si opponevano, cioè i kuffar laici, liberali, socialisti e cristiani.

 

Due mesi dopo l’uscita di scena di Mubarak, la corrente rivoluzionaria cercò di contrastare questa deriva militar-islamista. Ma era troppo tardi. Il referendum del 19 marzo 2011 decretò la vittoria del sì con il 77% dei voti. Gli islamisti la considerarono una gazwa (1), come quelle dell’alba dell’islam, battezzandola "gazwa al sanadiq" ("la gazwa delle urne"), nella definizione di un famoso sayh salafita, Muhammad Husayn Ya‘qub. Al di là del risultato, lo Scaf ebbe il coraggio di emanare una dichiarazione costituzionale, sfidando il popolo intero, nella quale si autoassegnava i poteri essenziali, fissando il periodo di transizione in sei mesi nei quali si sarebbero svolte prima le elezioni legislative, poi quelle presidenziali. Solo alla fine sarebbe stata scritta la nuova carta costituzionale. Gli egiziani accettarono a malincuore questa decisione.

 

Poco più tardi, dopo molti sit-in in cui si chiedeva di portare pubblicamente in giudizio Mubarak e compagni, lo Scaf decise di processarlo a porte chiuse affibbiandogli capi d’accusa inconsistenti come l’appropriazione indebita di terreni o l’acquisto di ville a prezzi non commerciali a Sharm el-Sheikh. Lo Scaf tradiva ancora una volta lo spirito di una rivoluzione che era sorta contro un regime corrotto, sopravvissuto per più di trent’anni. La gente scese nuovamente in piazza, in una nuova ondata di proteste boicottate dalle correnti islamiche, sempre più affiatate con lo Scaf, per chiedere la trasparenza dei processi. Pressato dalle manifestazioni, lo Scaf accettò di mandare in onda i processi e Mubarak apparve in televisione per la prima volta dopo le dimissioni.

 

In mezzo a questo marasma, i copti subivano veri e propri attacchi terroristici a Sawl, Imbaba e Marinab, con la chiara complicità dello Scaf e della polizia, che si astenevano dall’arrestarne i responsabili. Lo Scaf utilizzò i leader salafiti, che sui loro canali satellitari etichettavano tutto il giorno i cristiani come kuffar, per dare vita alle cosiddette "sedute di riconciliazione" nelle quali veniva imposto ai copti di rinunciare ai risarcimenti per i danni alle persone, ai negozi e alle chiese e al diritto a un giusto processo contro chi li aveva obbligati a lasciare le proprie terre e le proprie case. Esasperati, migliaia di copti scesero in piazza in sei diversi governatorati. Ma le manifestazioni furono ferocemente represse dallo Scaf e dalla polizia.

 

Passati i sei mesi fissati dallo Scaf per il passaggio dei poteri, non successe nulla. Le manifestazioni si accesero nuovamente per chiedere di completare la transizione entro l’aprile 2012. Gli scontri furono particolarmente violenti soprattutto in via Muhammad Mahmud, che dà su piazza Tahrir, e intorno al Consiglio dei ministri: la polizia sparò negli occhi ai giovani rivoluzionari, tanto che la strada è stata poi ribattezzata "Via Occhi della Libertà".

 

Una delle mosse più gravi dello Scaf fu il rinvio dell’emanazione della legge di interdizione politica contro i fulul del vecchio regime. Obiettivo di tale legge era impedire l’accesso al potere dei peggiori nemici della rivoluzione, personaggi come il militare Ahmad Safiq, primo ministro di Mubarak. Fissata la data delle prime elezioni postrivoluzionarie, soltanto due grossi blocchi erano pronti a scendere in campo: i Fratelli musulmani e gli ex esponenti del Pnd. Ciò malgrado Muhammad Badi, guida suprema dei Fratelli musulmani, avesse affermato che l’organizzazione non avrebbe accettato più del 35% dei seggi, dando occasione a tutte le forze rivoluzionarie di partecipare ai lavori parlamentari. Quanto ai partiti liberali e di sinistra e ai rappresentanti dei giovani della
rivoluzione, erano privi di esperienza politica oltre che di risorse economiche.

 

Il Blocco egiziano (Kutla misriyya), nato dalla fusione di 48 partitini, la maggior parte dei quali figli della rivoluzione di gennaio, su cui molti avevano scommesso come rappresentanti delle istanze rivoluzionarie, si sfasciò subito a causa delle infantili lotte intestine per la leadership e per la spartizione dei seggi. Si litigava sulla spartizione di una torta inesistente. Dal Blocco nacquero tre partiti orfani, che non hanno poi avuto alcun peso politico nella piazza egiziana. I restanti 4 partiti della rivoluzione si frantumarono in minuscole alleanze.

 

Le elezioni parlamentari furono stravinte dai Fratelli musulmani che, insieme ai salafiti, si aggiudicarono la grande maggioranza dei seggi. Per vincere i Fratelli usarono tutti i mezzi, leciti e illeciti, come suggerire i nomi dei loro candidati dentro i seggi elettorali, dare del miscredente a tutti coloro che non votavano i partiti islamisti, distribuire gratuitamente olio, zucchero e buoni con il timbro della Fratellanza da scambiare con soldi veri, truccando ampiamente il processo elettorale. La differenza tra l’unione dei partiti islamisti - al-Hurriyya wa-l-‘adala - i partiti salafiti al-Nur e al-Asala e le sparse correnti laiche era evidente. Gli islamisti avevano preso più del 70% dei seggi, malgrado avessero ottenuto soltanto il 52% del totale dei voti.

 

L’importanza di quel voto stava soprattutto nel fatto che, secondo la dichiarazione emanata dallo Scaf, il parlamento avrebbe eletto i cento membri dell’Assemblea costituente. I Fratelli musulmani - che avevano precedentemente affermato di non voler concorrere alla presidenza per bocca della loro guida suprema Muhammad Badi, il quale si era spinto a dichiarare che avrebbe temuto per l’Egitto nel caso un fratello fosse diventato presidente della Repubblica - parteciparono poi alle elezioni presidenziali. Tuttavia, lo scioglimento del parlamento da parte dello Scaf, che apparentemente metteva fine all’accordo con i Fratelli, permise l’entrata in gioco di uno dei leader della Fratellanza, Hayrat al-Shater, considerato da molti come l’uomo forte, la vera guida suprema e il grande rinnovatore dell’organizzazione islamista. Ma il suo coinvolgimento in vicende giudiziarie gli impedì di candidarsi alle elezioni. Ciò spinse i Fratelli a candidare, con successo, una personalità di riserva, Muhammad Morsi, che per questo motivo fu soprannominanto goliardicamente "la ruota di scorta".

 

Le forze rivoluzionarie non fecero tesoro dei precedenti errori e non si raggrupparono attorno a un solo candidato rivoluzionario. Alle presidenziali si presentarono ben tredici candidati, tra islamisti e rivoluzionari - nelle file di questi ultimi Hamdin Sabbahi e Halid ‘Ali - oltre ad ex dirigenti del regime, a capo dei quali spiccava Ahmad Safiq, il primo ministro di Mubarak che aveva fatto di tutto per reprimere la rivoluzione.

 

Il risultato del primo turno delle elezioni fu scioccante. Al ballottaggio arrivarono Ahmad Shafiq, rappresentante dell’ex regime, e Muhammad Mursi, candidato dei Fratelli musulmani. Chi votare al ballottaggio? Per i rivoluzionari le due opzioni erano una peggiore dell’altra. Sarebbe stato ridicolo aver fatto una rivoluzione per poi votare Ahmad Safiq, già rigettato dai rivoluzionari nei mesi caldi dello scontro con il vecchio regime. L’altro candidato era il rappresentante di un’organizzazione terroristica che si rifiuta di riconoscere il concetto di cittadinanza e la stessa statualità egiziana.

 

Apparve allora sulla piazza un gruppo rivoluzionario chiamato più tardi "i rivoluzionari del pizzicotto sullo stomaco" (2), i quali si schierarono, a malincuore, con Mursi, grazie al cosiddetto "accordo di Vermont", dal nome dell’hotel in cui fu raggiunta l’intesa. La storia ebbe inizio quando Muhammad Biltagi, segretario del partito al-Hurriyya wa-l-‘Adala, invitò Muhammad al-Baradi'i (El Baradei) a preparare un incontro con Muhammad Mursi. L’ex direttore dell’Aiea promise di presentarsi in compagnia dello scrittore di fama internazionale ‘Ala’ al-Aswani e del giornalista Wa’il Qandil, portavoce ufficiale del partito al-Dustur. Al-Biltagi chiamò Ahmad Mahir, coordinatore del Movimento 6 aprile, e Sadi al-Gazali Harb, membro della coalizione rivoluzionaria, oltre alla scrittice Sakina Fu’ad, al giornalista Hamdi Qandil e a Wa’il Gunaym, attivista politico e simbolo della rivoluzione di Tahrir. L’allora coordinatore dell’Associazione nazionale per il cambiamento affermò che bisognava bloccare l’avvento di Shafiq al potere in tutti i modi, anche appoggiando - pur se a malincuore - la candidatura di Muhammad Morsi.

 

Durante l’incontro, ‘Ala’ al-Aswani attaccò Mursi affermando: "Voi siete la causa di quello che succede ora nel paese. Voi ci avete scaricato non appena avete preso il parlamento. Voi sarete la causa della vittoria di Shafiq", affermando di voler restare all’incontro soltanto perché disposto a vendere l’anima al diavolo pur di impedire a Shafiq di assumere la presidenza. Poi aggiunse: "Non sono venuto per amore vostro. Voi ci avete ingannato tutti". I giovani rivoluzionari, che capirono che i Fratelli li avevano contattati perché temevano la vittoria di Shafiq,misero in guardia Morsi dallo scendere a patti con lo Scaf: "Se ciò dovesse succedere, vi metteremo a nudo ovunque". Morsi fu sorpreso dall’attacco durissimo dei rivoluzionari. La riunione sarebbe fallita se non fosse intervenuto Hamdi Qandil, che invocò un accordo nazionale per salvare la rivoluzione. Nonostante le forti divergenze, si riuscÏ a redigere un comunicato congiunto, una sorta di documento per l’unità nazionale, che affermava questo nuovo spirito comune.

 

Morsi promise di rispettare, in caso di vittoria, i seguenti punti:

 

A) Un programma di unità nazionale che rispettasse tutte le componenti della società egiziana, comprese le donne, i copti e i giovani.
B) L’Èquipe presidenziale e il governo di salvezza nazionale avrebbero ricompreso e rappresentato al loro interno tutte le correnti nazionali. Il primo ministro sarebbe stato una personalità indipendente.
C) La creazione di un’unità di crisi, formata da personalità di spicco, per affrontare la grave situazione del paese e assicurare il passaggio dei poteri al presidente eletto e alla sua Èquipe.
D) Il rifiuto della dichiarazione costituzionale supplementare che perpetuava lo stato di emergenza privando il presidente dei suoi poteri e usurpando anche il potere legislativo. Il rifiuto del decreto militare di scioglimento del parlamento come della creazione del Consiglio nazionale di difesa.
E) Un’Assemblea costituente equilibrata, che rappresentasse tutti gli egiziani.
F) Trasparenza e chiarezza con il popolo.
G) L’impegno per la creazione di un moderno Stato civile, democratico e costituzionale, basato sulla giustizia sociale, sulle libertà personali e sulla cittadinanza.

 

Lo stesso giorno in cui lo Scaf promulgava la dichiarazione costituzionale supplementare, avendo percepito che i Fratelli avrebbero potuto ritirarsi dall’accordo dopo aver ottenuto ciò che volevano, ebbe luogo il ballottaggio. I primi risultati del ballottaggio indicavano una sostanziale parità tra Morsi e Shafiq, con un gran numero di voti truccati a favore del primo. Cinque ore dopo la fine delle elezioni e la chiusura dei seggi, alle quattro del mattino, Muhammad Morsi annunciò la sua vittoria. Intanto la Fratellanza minacciava tutti, affermando di disporre di 17 mila combattenti pronti a sparare nel caso venisse annunciata la vittoria di Shafiq. Sicché lo Scaf premette sulla Commissione elettorale per assegnare la vittoria a Morsi, infine annunciata con una percentuale del 51,7%. L’ennesimo accordo Fratelli-Scaf andava a buon fine: Morsi era il nuovo presidente.

 

La vittoria di Morsi segnava la fine della rivoluzione e la vittoria dell’organizzazione radicale dei Fratelli musulmani. Tramontavano i sogni dei laici, l’idea di uno Stato moderno. La Fratellanza crede alla democrazia solo fintanto che le permette di accaparrarsi il potere.

 

Ma alla fine del tunnel, nel popolo egiziano resta un barlume di speranza: i Fratelli hanno tentato di giungere al potere per 84 anni, ma non hanno mai pensato a come governare. Come predisse il grande intellettuale - poi vittima del fondamentalismo islamico - Farag Fuda, "la fine del movimento politico islamista in Egitto avverrà nel momento stesso in cui prenderà il potere". A essere di buon auspicio è la notevole diminuzione di popolarità dei Fratelli e della corrente islamista. Dagli iniziali 18 milioni di voti alle parlamentari, alle presidenziali i voti dei Fratelli sono calati a 13 milioni. Un terzo dei voti in meno, nel giro di pochi mesi, dovuto soprattutto alla pessima gestione islamista del parlamento.

 

La vittoria di Morsi non segna, dunque, solo la fine del sogno rivoluzionario ma anche, si spera, la fine dello strapotere politico islamista in Egitto.

 

Note:
(1) Battaglia associata all’espansione dello spazio islamico (n.d.t.).
(2) In arabo egiziano suwwar il-lamun ("i rivoluzionari del limone"). "Spremersi un limone addosso" in arabo egiziano equivale a "darsi un pizzicotto sullo stomaco" in italiano (n.d.t.).