Che mondo fa (Limes)

21.12.2013 16:55

dal n. 11/2013 di Limes, "Che mondo fa", editoriale "La differenza fra l'Italia e il mondo". (...) facendo violenza alla refrattarietà che da mestieranti della geopolitica proviamo per i verdetti definitivi, a tutto tondo, ammettiamo che il brand degli anni Duemila sembra essere la non-egemonia. E minaccia di restarlo a lungo. A tratteggiare un mondo senza poli, o con polarità molto relative. Non giallo né stars and stripes: per ora questo è il secolo di nessuno. Perché nessuno può intestarsi il pianeta. (...) Le massime potenze stentano a dominare se stesse, figuriamoci l'umanità. (...) la stupidità (...) deriva (...) dall'ambizione di applicare le categorie della propria cultura all'interpretazione di quelle altrui, onde spingerle a omologarsi alla visione del mondo di chi se ne pretende centro. E' la tentazione dell'isometria: misurare gli altri con il metro nostro, posto generale. L'ideologia dello standard assoluto sottende una geopolitica totalitaria. (...) L'Italia si trova oggi nell'occhio del ciclone prodotto da tre crisi: Eurozona, Grande Mediterraneo e Balcani (...). Tali crisi sono intrecciate e distinte. L'europea e la grande-medi-balcanica, entrambe in fase acuta, hanno un impatto globale. La balcanica, in molto artificiosa soluzione, tende ad autocontenersi, non riguarda il resto del pianeta a meno di non estendersi alla Russia. Il combinato disposto delle tre crisi impatta sul nostro paese e ne scuote le radici. La prima ci inchioda al piano inclinato della deflazione o ci invita al salto senza rete della fuoriuscita dall'euro. Le altre, massime il grande tsunami sul fronte Sud, premono anzitutto sulla nostra tenuta istituzionale e sociale, in definitiva sulla sicurezza nazionale. (...) Quanto minacciosa sia la tempesta che ci avvolge lo cogliamo meglio allargando lo sguardo. Per scoprire che l'area delle tre crisi lambisce il vasto spazio caotico che battezziamo terre incognite o Caoslandia. (...) Le terre incognite dilagano lungo la fascia equatoriale e investono gli spazi tropicali - lascito del doppio trauma delle colonizzazioni e delle pseudo-decolonizzazioni - salvo espandersi il Nord veterocontinentale, sempre meno ricco e benestante. Sovrapponendo la mappa delle aree a massima densità di slums nel mondo (...) alla nebulosa di Caoslandia ci rendiamo conto del potenziale esplosivo racchiuso nelle aree a urbanizzazione selvaggia che infestano le terre incognite. L'Italia è la cerniera che separa il Nord da Caoslandia. Sempre più a stento. Penetrando le porose frontiere nazionali, i micidiali flussi generati nelle aree non governate vicine e lontane - dal narcotraffico al calvario di profughi e migranti alle infiltrazioni mafiose - si diffondono nel nostro tessuto sociopolitico. Se queste correnti d'instabilità si saldassero in modo permanente con le gragilità endogene, riassunte nella delegittimazione delle istituzioni democratiche e della politica tout court, il futuro del nostro Paese ne sarebbe compromesso. (...) Qualcuno potrebbe essere tentato di imputare tutti i nostri mali, depressione economica in testa, al dilagare dell'instabilità geopolitica, esterna e domestica. Applicando al caso Italia le ultime scoperte delle scienze tristi: lo scorso anno, due eminenti accademici, l'economista Daron Acemoglu e il politologo James A Robinson, hanno scalato le classifiche della saggistica occidentale certificando in cinquecento pagine che la differenza fra ricchi e poveri non la fanno culture, climi o antropologie, ma le istituzioni politiche. Il teorema di Acemoglu-Robinson stabilisce che le nazioni falliscono quando le architetture statali non funzionano. A noi imgenui la dimostrazione parrà circolare, ma il successo di pubblico e critica ammette ormai Acemoglu e Robinson alla gloriosa famiglia dei Fukuyama, degli Ohmae e degli Huntington. Ed è soprattutto attraverso il prisma dell'inaffidabilità istituzionale, nobilitato dai citati teorici, che i nostri europartner ci scrutano: quanto potrà resistere la nostra economia, quanto il nostro Stato, al ciclone delle tre crisi ? Proviamo a incrociare il nostro punto di vista sulle terre incognite con quelli dei due supermassimi geopolitici, Stati Uniti e Cina. Quegli opachi spazi ingovernati sono ai loro occhi altro da ciò che paiono a noi: incarnano il cuore selvaggio della competizione planetaria in cui sono impegnati. Allo stesso tempo, la relazione con Caoslandia illumina i termini della competizione per il primato mondiale che (...) le élite americane e cinesi si ostinano a perseguire. Con risorse, mentalità e modalità piuttosto asimmetriche. (...) Allarghiamo lo sguardo sulla competizione sino-americana proiettandola su scala planetaria. (...) Più interdipendenza e molto meno governo del capitalismo mondiale, finanziariazzazione dell'economia e fardello opprimente dei debiti pubblici che frena le ambizioni geopolitiche delle potenze occidentali: ecco i fattori primari che stando al consenso prevalente segnano la transizione dal regime di accumulazione a egemonia statunitense ad altra fase, anche qualitativamente diversa, nella quale la Cina, perno del motore estremo-orientale, torna protagonista. Secondo stime correnti, la quota cinese del prodotto interno lordo globale è proiettata pari al 34% nel 2030, appena un punto in più di quanto si stima fosse nel 1820. L'americana, irrilevante due secoli fa (1,8%), all'alba del terzo decennio del secolo è supposta valere nemmeno la metà della cinese (15%), appena sopra a noi europei (13%). Le pressioni economiche lasciano spesso il tempo che trovano, ma la tendenza è evidente per chiunque non voglia mettere la testa nella sabbia. In questi anni si disputa quindi la partita del secolo: chi e come determinerà le nuove regole del gioco finanziario, economico e geopolitico ? (...) Oggi i leader mondiali non hanno più settimane da perdere in conferenze segrete. E questo pianeta non risponde come un tempo agli impulsi dei sedicenti Grandi. I pretendenti a quote di potere sono troppi e servono interessi spesso incompatibili, anche perché tra essi molti - mafie, ong, colossi industriali, chiese, corporazioni, pirati dei mari e dell'etere, terroristi (...) - non pertengono alla specie Stato. Le terre incognite che queste new old entries della geopolitica contribuiscono a fertilizzare pesano sul bilancio della prosperità e della sicurezza planetaria come mai in passato. Non ultimo, anche il fattore ambientale spariglia la partita (...). Si creda o meno alle teorie sul mutamento climatico ormai irreversibile, dali effetti peraltro variabili a seconda delle aree del pianeta, non c'è soggetto politico o economico che possa ometterlo - fosse solo per negarlo - nella sua pianificazione strategica. (...). Quanto alle lobby dell'apocalisse ambientale, sono sufficientemente agguerrite per occupare la loro porzione di sfera pubblica, incrociando i ferri con le contro-lobby degli scettici o di Big Oil. Contro le quali si è esibito financo papa Francesco (...). Ad oggi, fra paesi sviluppati stagnanti o in declino e cosiddetti emergenti, il compromesso sulle politiche eccologiche si rivela impossibile o fasullo. Quando due colossi si confrontano in uno scenario a troppe incognite, l'esito è imprevedibile. Dal caos attuale possono scaturire regole pacificamente negoziate oppure guerre regolarmente legittimate come necessarie a generare la pace del "nuovo ordine mondiale", naturalmente definitivo. L'esperienza corrobora la seconda ipotesi. (...) I teorici dell'interdipendenza economica come antidoto alla guerra osserveranno che l'osmosi fra i sistemi finanziari e produttivi sino-americani è tale da obbligarli a convivere. Ma nei laboratori strategici di Washington e di Pechino ci si attrezza a un conflitto che alcuni considerano inevitabile. La questione è se i duellanti concorderanno un nuovo equilibrio prima o solo dopo essersi scontrati in un conflitto più o meno (il)limitato. Le dimensioni globali della sfida sino.americana sono anzitutto di natura geoeconomica. A marcarle, l'unicum del vincolo prodotto dal favoloso indebitamento del detentore con lo sfidante. Ne scaturisce un gioco a somma positiva ? All'opposto: la Cina esplicita l'obiettivo di abbattere il regime del superdollaro, espressione di una superpotenza troppo disfunzionale e inaffidabile per un creditore così esposto. Si realizzerebbe così il sogno keynesiano - liquidato dagli Usa a Bretton Woods - di una nuova divisa internazionale di riserva. Ma a forti tinte gialle. Simbolo del "mondo de-americanizzato", orizzonte recentemente auspicato dall'agenzia di stampa ufficiale di Pechino. Incubo che Washington intende scongiurare con ogni mezzo. Tra cui la costruzione di due macroregioni economiche transcontinentali centrate sugli Stati Uniti e pudicamente vestite da aree di libero scambio: una destinata a aprire e vincolare i mercati europei, sorta di Nato economica (Ttip); l'altra deputata all'identico scopo nel Pacifico, curiosamente senza la Cina (Tpp). La traduzione geopolitica della difesa del superdollaro sta nel fin troppo famoso pivot to Asia, ovvero il contenimento americano della Cina. (...) Pur se del riposizionamento militare a stelle e striscie nella regione si intravvede appena l'ombra, Pechino l'ha già integrato nelle sue matrici strategiche. Di qui alcune contromosse, tra le quali spicca il riavvicinamento alla Russia. Prima paradossale conseguenza del pivot to Asia: due imperi che si sono sempre scrutati in cagnesco, salvo combattersi in guerre calde e fredde persino quando esibivano la medesima facciata comunista, trovano ragioni d'intesa nell'opposizione al primato americano. Quasi a dimostrare che Hillary Clinton, principale architetto insieme a Obama del contenimento anti-cinese, abbia disfatto la tela ordita da Kissinger, per conto di Nixon, nei primi anni Settanta: abbracciare Pechino per usarla contro Mosca.