(Siria/Turchia) Il campo profughi turco vicino a Kilis, quando arriva l’inverno (Giacomo Cuscunà, Meridiani, 25 febbraio 2013)

25.02.2013 09:51

Nel campo profughi nei pressi di Kilis, una cittadina di confine dell’Anatolia meridionale, le condizioni di vita di coloro che sono stati costretti a rifugiarvisi stanno peggiorando notevolmente con l’arrivo dell’inverno. Nelle scorse settimane le autorità turche hanno distribuito giacche e cappotti ai circa 4 mila bambini e ragazzi che vivono nei container di questo campo. Molti bambini si sono adattati a camminare tra ghiaccio e pozzanghere con semplici ciabatte di plastica – senza nemmeno i calzini – e gli adulti sono stati costretti a utilizzare teli di nylon, lamiere o pezzi di compensato per coprire alla meglio i container e limitare i danni delle frequenti infiltrazioni.

«La vita qui è difficile», racconta Muhammad, a Kilis da otto mesi. «Nel mio container è entrata l’acqua. I responsabili del campo sono intervenuti e ora va un po’ meglio, ma lo stesso non è facile».

L’organizzazione degli aiuti, curata dal ministero turco per le emergenze e le calamità, si è concentrata sulle necessità delle fasce più giovani della popolazione siriana rifugiata in Turchia. Le scuole del campo sono in funzione, e la maggior parte dei bambini che ci vivono frequenta le lezioni tenute da decine di volontari siriani, profughi a loro volta, che si sono improvvisati insegnanti. Il governo turco di Tayyip Erdogan è riuscito a elaborare una strategia efficiente di accoglienza dei profughi in fuga dalla Siria: proprio per questa ragione, le condizioni nel campo di Kilis, anche se indubbiamente dure, rimangono accettabili.

A Bab al-Salam, a poche centinaia di metri di distanza dal campo in territorio turco, accanto alle postazioni di confine della parte siriana, centinaia di tende fanno da riparo a più di 11 mila persone che non sono autorizzate ad attraversare la frontiera. Nel campo di Bab al-Salam le condizioni di vita sono molto dure: non c’è alcun tipo di sistema di rifornimento idrico stabile o infrastrutture indispensabili, come le latrine. Anche in questa tendopoli, i bambini indossano stivali di plastica e ciabatte. Diego, un volontario milanese che svolge un periodo di Servizio volontario europeo nel sud della Turchia, inizia a giocare con loro: estrae un naso di clown dalla tasca e con alcune semplici mosse da teatrante di strada nel fango riesce a far entusiasmare subito i bambini.

«La situazione più grave ora non è quella dei profughi in Turchia, Giordania, Libano o Iraq», sostiene Abdul A-Karem, una figura di spicco del partito Baath aleppino che ha abbandonato il regime siriano sin dai primi momenti della rivolta. «Ora il vero problema sono i profughi interni. Quelli al confine in attesa di poter fuggire e quelli che scappano dai centri delle violenze e si rifugiano in villaggi e campagne all’interno del paese». «Non ho mai visto negli occhi di un bimbo una tale paura», racconta Diego dopo aver visitato la cittadina siriana di A’zaz, nel nord del paese, confrontando questa esperienza con i suoi precedenti lavori nei Balcani e in alcune baraccopoli keniane.

«In quest’area ci sono più di 11 mila persone» dice Muhammad, uno degli addetti per i rapporti con la stampa dell’Esercito libero siriano di A’zaz. «Gli aiuti arrivano dalla Turchia e dal Qatar. Le tende ci sono state fornite dalla Mezza Luna Rossa di Doha, organizzazione internazionale di assistenza umanitaria, mentre un’Ong turca garantisce due pasti caldi al giorno». Tre grandi tende sono state allestite a istituti scolastici e alcuni dei profughi che ci vivono impartiscono lezioni a circa 400 bambini.

Ahmad ha attraversato la frontiera. Ha vent’anni e la sua famiglia vive in un villaggio nella periferia di A’zaz. Da un paio di anni Ahmad vive in Germania dove studia medicina. «Ho trascorso una settimana con la mia famiglia» racconta mescolando inglese e tedesco mentre è in attesa per il controllo passaporti al valico di Öncűpinar: «vivere senza acqua, senza elettricità, senza nulla, è impossibile». Nell’ultimo mese la sua famiglia è stata decimata dai bombardamenti e lui ha passato gli ultimi giorni alla ricerca di tre parenti feriti ricoverati in Turchia, ma ancora non è riuscito a scoprire in quale ospedale si trovano. Saluta il padre baciandogli la mano in segno di rispetto e si prepara a volare verso la Germania per riprendere gli studi, burocrazia permettendo.

Per chi ha scelto di rimanere nelle città siriane invece l’incubo delle bombe non si ferma. Ad A’zaz nel corso dell’ultimo mese in almeno tre incursioni aeree ci sono stati più di trenta morti e negli altri centri come Aleppo, Idlib e Damasco gli scontri tra ribelli e governativi continuano senza sosta. In due anni di conflitto le Nazioni Unite stimano che il conflitto abbia causato circa 70 mila vittime e in tutta la regione sarebbero almeno 800 mila i siriani registrati come rifugiati o assistiti in attesa di essere registrati.