(USA/Italia) L'ultimo strappo tra Barack e Silvio. "Non siamo ai tempi della guerra fredda" (Federico Rampini, la Repubblica, 17 febbraio 2013)
Niente ingerenze dalla Casa Bianca sul voto italiano. «Non siamo più all’epoca della guerra fredda, queste cose non si fanno, e tra l’altro si ritorcerebbero contro di noi», confida un consigliere dell’Amministrazione Obama. Che Barack Obama non si sogni neppure di dare «indicazioni di voto», o anche solo di esprimere generiche simpatie, qui viene dato per scontato. È su richiesta italiana, che la portavoce Caitlin Hayden ha dovuto emettere uno speciale comunicato di sabato mattina, mentre il suo presidente era a Chicago a occuparsi di economia e lavoro. «Gli Stati Uniti non parteggiano o appoggiano alcun partito politico nelle elezioni di altre nazioni. Alle elezioni italiane tocca al popolo italiano decidere». Si fa notare che perfino un leader molto disinvolto e ormai lontano da ogni carica istituzionale come l’ex presidente Bill Clinton, ha declinato un invito ad apparire nella campagna elettorale italiana a favore del Pd. L’epoca in cui la superpotenza leader aveva la “mano pesante” verso i propri alleati, spesso con conseguenze indesiderate, ha insegnato qualcosa.
Escluse le interferenze, il caso italiano resta al centro di un’attenzione elevata da parte degli establishment Usa. Il plurale è d’obbligo, e la Casa Bianca ci indica il perché. Nel blog ufficiale della presidenza Usa compare questa affermazione sul colloquio di venerdì tra Obama e Giorgio Napolitano: «Il focus primario della conservazione è stata l’economia». Percorrendo a ritroso il denso calendario di quest’ultima settimana nelle relazioni Italia-Usa, tutto appare più chiaro. A dare il “la” è l’evento di lunedì a New York: un appuntamento affollato dalla business community, finanza di Wall Street e anche grande industria. È un luogo dove la massima attenzione verso il caso italiano trova le spiegazioni.
Tra i grandi investitori che accorrono ad ascoltare quel lunedì l’ambasciatore Usa in Italia (David Thorne auspica «una maggioranza netta, un governo stabile», commentando le previsioni sulla vittoria del centro-sinistra) tutti hanno letto due rapporti allarmanti. Sono tutti e due opera di grandi banche americane. JP Morgan Chase è la fonte del primo, intitolato “Che cosa succede se Berlusconi vince”. Lo scenario illustrato in quel rapporto è drammatico per i mercati globali, oltre che per la tenuta dell’Unione europea: «Scatterebbero pesanti pressioni dei mercati sull’Italia, le fughe di capitali costringerebbero Roma a chiedere un salvataggio. Gli elettori tedeschi si troverebbero nella difficile posizione di dover finanziare un maxi-salvataggio di un paese governato da Berlusconi». Conclusione di JP Morgan Chase: «È questo il risultato che tutte le cancellerie vogliono evitare».
Il secondo studio, di Morgan Stanely, è quello che denuncia l’impossibilità per l’industria italiana di reggere la competizione globale con questo euro sopravvalutato. Le alternative com’è ovvio sono solo due: una svalutazione dell’euro che la Germania non accetta, oppure riforme strutturali che rilanciano la produttività e la competitività. Ma c’è un terzo sbocco, il riaccendersi di spinte centrifughe, verso una disintegrazione dell’euro. Il tam tam su questi scenari a Wall Street cresce di giorno in giorno. Non appena Napolitano lascia Washington, su Barron’s che è la testata di approfondimento del Wall Street Journal, esce un’analisi intitolata “La nube Berlusconi sopra l’Italia”. Inizia così: «Il risultato più probabile è la vittoria del centro-sinistra, ma…». Reuters rilancia con questo commento: «Una rimonta di Berlusconi agita gli investitori, temono che il centro-destra blocchi le riforme di cui ha bisogno l’Italia. L’instabilità post-elettorale sarebbe l’inizio di un’altra crisi dell’eurozona». Uno dei blog più diffusi tra i manager di fondi d’investimento, The Big Picture, aggiunge Beppe Grillo nello scenario: «Se il risultato del Movimento 5 Stelle sarà tale da far mancare un maggioranza, si va verso il panico sui mercati».
Questo è lo sfondo su cui venerdì si è svolto il lungo colloquio Obama-Napolitano. Preceduto dagli incontri con il vicepresidente Joe Biden, la numero uno democratica alla Camera Nancy Pelosi. Seguito da una colazione con il nuovo capo della diplomazia Usa, John Kerry, poi da una cena con due teste d’uovo della politica estera democratica (nonché ex segretari di Stato) Madeleine Albright e Zbigniew Brzezinski. Le preoccupazioni dell’establishment economico rimbalzano su quello istituzionale di Washington. Obama ricorda che per ben due volte la crisi dell’eurozona fece quasi deragliare la ripresa americana. La prima volta (2010) il caso Grecia fu il detonatore, ma la seconda crisi (2011) fu ancora più grave perché coinvolse l’Italia (e la Spagna) nei timori di un default. Questa è la sostanza della preoccupazione americana. Nessuna ingerenza nel voto italiano, dunque, ma una chiara idea delle politiche auspicabili. Da una parte l’Italia deve rimanere saldamente ancorata al progetto europeo, perché ogni “scarto” dall’eurozona avrebbe conseguenze micidiali per l’economia mondiale, America inclusa. D’altra parte, come Obama ha ribadito a Napolitano, «non si esce dalla recessione a forza di tagli». L’America attende un riequilibrio europeo in favore di politiche meno rigoriste, più favorevoli alla crescita.
Per il resto, le diffidenze verso Berlusconi non sono nuove e neppure di parte: le rivelazioni di WikiLeaks sui dispacci dell’ambasciata Usa a Roma fornirono ampie prove che già l’Amministrazione repubblicana di George Bush diffidava di Berlusconi per i suoi rapporti con Vladimir Putin sul dossier energetico.