Una sconfitta non soltanto per chi crede (Mario Vargas Llosa, la Repubblica, 3 marzo 2013)

05.03.2013 06:15

"Non so perché abbia creato tanta sorpresa l’abdicazione di Benedetto XVI: per quanto eccezionale, non era imprevedibile. Bastava vederlo, fragile e quasi smarrito in mezzo a quelle folle in cui la sua funzione lo costringeva a immergersi, fare sforzi sovrumani per sembrare il protagonista di quegli spettacoli ovviamente non consoni al suo temperamento e alla sua vocazione. A differenza del suo predecessore, Giovanni Paolo II, che si muoveva come un pesce nell’acqua tra quelle masse di credenti e di curiosi che il papa raduna in tutte le sue apparizioni, Benedetto XVI sembrava estraneo a quei fasti gregari che costituiscono un compito imprescindibile del pontefice nei nostri tempi.
Così si capisce meglio la sua resistenza ad accettare il trono di Pietro impostogli dal Conclave otto anni fa e al quale, come ora sappiamo, non aveva mai aspirato. Il potere assoluto lo abbandonano solo, con la facilità con cui lui lo ha fatto, quelle rare figure che, invece di ambirlo, disprezzano il potere.

Non era un uomo carismatico né da tribuna, come Karol Wojtyla. Era un uomo di biblioteca e di cattedra, di riflessione e di studio, sicuramente uno dei pontefici più intelligenti e colti che la Chiesa abbia mai avuto. In un’epoca in cui le idee e le ragioni sono molto meno importanti delle immagini e dei gesti, Joseph Ratzinger era già un anacronismo, poiché apparteneva alla parte più eminente di una specie in via di estinzione: quella degli intellettuali. Benché concepiti sempre all’interno dell’ortodossia cristiana, ma con un criterio molto ampio, i suoi libri e le sue encicliche superavano spesso i limiti strettamente dogmatici e contenevano nuove e audaci riflessioni sui problemi morali, culturali ed esistenziali del nostro tempo che lettori non credenti potevano leggere con profitto e spesso — a me è accaduto — con turbamento. A Benedetto XVI è capitato uno dei periodi più difficili che il cristianesimo abbia affrontato nei suoi più di duemila anni di storia. Il furto di documenti perpetrato da Paolo Gabriele, maggiordomo e uomo di fiducia del Papa, ha portato alla luce le lotte spietate, gli intrighi e le torbide trame di fazioni e dignitari in seno alla curia di Roma in contrasto per motivi di potere. Nessuno può negare che Benedetto XVI abbia cercato di rispondere a queste enormi sfide con coraggio e decisione, anche se senza successo. Tutti i suoi tentativi sono falliti, perché la cultura e l’intelligenza non sono sufficienti per orientarsi nel dedalo della politica terrena e affrontare il machiavellismo degli interessi creati e dei poteri di fatto in seno alla Chiesa: un altro degli insegnamenti che traiamo da questi otto anni di pontificato di Benedetto XVI, giustamente descritto dall’Osservatore Romano come «un pastore circondato da lupi». Bisogna però riconoscere che grazie a lui ha ricevuto finalmente una pena ufficiale in seno alla Chiesa il reverendo Marcial Maciel Degollado, il messicano di rito satanico, ed è stata dichiarata in riorganizzazione la congregazione da lui fondata, i Legionari di Cristo, che aveva finora ricevuto un appoggio vergognoso nelle più alte sfere della gerarchia vaticana. Benedetto XVI è stato il primo papa che abbia chiesto perdono per gli abusi sessuali nei collegi e nei seminari cattolici, che abbia incontrato le associazioni delle vittime e convocato la prima conferenza ecclesiastica dedicata a ricevere la testimonianza delle vittime e a stabilire norme e regolamenti per evitare che si ripetano in futuro simili iniquità. È anche vero, tuttavia, che nulla di tutto ciò è stato sufficiente per cancellare la perdita di prestigio patita
dall’istituzione. Né sembrano aver avuto molto successo gli sforzi di Benedetto XVI per mettere fine alle accuse di riciclaggio di capitali e di traffici illeciti della banca del Vaticano. L’espulsione del presidente dell’istituto, Ettore Gotti Tedeschi, vicino all’Opus Dei e protetto dal cardinal Tarcisio Bertone, per “irregolarità della sua gestione”, così come la sua sostituzione con il barone Ernst von Freyberg, sono avvenute troppo tardi per poter fermare i processi e le indagini in corso sulle operazioni commerciali illecite e sui traffici che interessano somme astronomiche di denaro. Una vicenda che non può che erodere ulteriormente l’immagine pubblica della Chiesa e confermare che nel suo seno le cose terrene prevalgono a volte su quelle spirituali e nel senso più ignobile della parola.
Joseph Ratzinger aveva fatto parte di un settore piuttosto progressista della Chiesa durante il Concilio Vaticano II, ma poi si andò allineando sempre più all’ala conservatrice: è stato un risoluto avversario di qualsiasi concessione su temi come l’ordinazione delle donne, l’aborto, il matrimonio gay e anche l’uso del preservativo che, in passato, era giunto a considerare ammissibile. Questo, indubbiamente, faceva di lui un anacronismo all’interno di quell’anacronismo che è via via diventata la Chiesa. Le sue ragioni, tuttavia, non erano sciocche né superficiali e noi che le rifiutiamo dobbiamo cercare di capirle per quanto possano sembrarci estemporanee. Era convinto che, se la Chiesa cominciava ad aprirsi alle riforme della modernità, la sua disintegrazione sarebbe stata irreversibile e, invece di abbracciare la sua epoca, sarebbe entrata in un processo di anarchia e dislocazione interne capace di trasformarla in un arcipelago di sette in lotta l’una con l’altra.
Giudicare fino a che punto Benedetto XVI abbia avuto ragione o meno su questo tema spetta,
questo è chiaro, solo ai cattolici. Ma noi non credenti faremmo male a festeggiare come una vittoria del progresso e della libertà il fallimento di Joseph Ratzinger sul trono di Pietro. Egli non solo rappresentava la tradizione conservatrice della Chiesa, ma anche la sua migliore eredità: quella dell’alta e rivoluzionaria cultura classica e rinascimentale che, non ce lo scordiamo, la Chiesa ha preservato e diffuso. Quella cultura che ha impregnato il mondo intero con idee, forme e costumi che hanno messo fine alla schiavitù e hanno reso possibili le nozioni di uguaglianza, solidarietà, diritti umani, libertà, democrazia.
La decadenza e la mediocrità intellettuale della Chiesa che la solitudine di Benedetto XVI ha messo in evidenza e la sensazione di impotenza che sembra averlo circondato in questi ultimi anni sono, senza dubbio, i fattori primordiali della sua rinuncia, e un inquietante indizio di quanto sia forte lo scontro della nostra epoca con tutto ciò che rappresenta la vita spirituale, la preoccupazione per i valori etici e la vocazione alla cultura e alle idee."