(Turchia) Uno Stato imperiale: la Turchia secondo Erdogan e Davutoglu (Alessio Stillo, Limes online, 14 febbraio 2013)

14.02.2013 13:01
I leader del Partito giustizia e sviluppo (Akp, al potere) hanno ereditato dai kemalisti la convinzione che il popolo non sappia scegliere cosa è meglio per sé. Il premier e il ministro degli Esteri vogliono che la religione non resti confinata alla sfera privata. L'idea di una civiltà-ponte tra tre continenti.


[Carta di Laura Canali - per ingrandirla clicca qui]

La Turchia, dall’ascesa al potere del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) di Erdoğan, ha vissuto una fase di rimescolamento politico e istituzionale tale da indurre gli studiosi a ritenere che fosse mutata la natura stessa del paradigma kemalista.

 

Una crescita economica sostenuta, insieme alla rivalutazione delle variabili sociali del passato ottomano - storia, geografia, cultura - hanno inoltre consentito ad Ankara di condurre una politica estera a cerchi concentrici volta a espandere l’influenza turca nel Vicino Oriente, in Asia centrale e in Nord Africa, pur senza tralasciare le vecchie direttrici del kemalismo, cioè l’appartenenza alla Nato, la leva nei Balcani e l’avvicinamento all’Unione Europea.

 

I turcologi hanno persino definito “democrazia islamica” (o “islamokemalismo”) la nuova architrave politico-istituzionale venutasi a creare in seguito alle riforme di Erdoğan. L’attuale primo ministro ha cavalcato l’onda delle rivolte arabo-islamiche con l’intenzione di presentare il “modello turco” ai partiti islamisti dei paesi del Grande Medio Oriente.

 

Ciò nondimeno, la tattica adottata da Erdoğan rischia di compromettere definitivamente la strategia della zero problems foreign policy. A dimostrazione di ciò, basti considerare che la Turchia post-rivolte arabe si ritrova in pessimi rapporti con i vicini più prossimi (Siria, Iraq, Israele, senza contare Grecia, Cipro, Armenia), con conseguenze potenzialmente destabilizzanti anche per gli affari domestici (curdi e kemalisti).

 

Il ruolo crescente assunto negli ultimi decenni dalle organizzazioni sociali e dalle confraternite islamiche ha posto le fondamenta per l’avanzamento del Partito per la giustizia e lo sviluppo. Tuttavia l’Akp ha utilizzato il forte consenso per trasformare la Turchia in una democrazia del partito al potere, secondo la definizione di Osman Baydemir in un saggio pubblicato dallo European Council on Foreign Relations (Ecfr): per lui, la classe dirigente dell’Akp ha ereditato la concezione kemalista secondo cui “i cittadini non sanno cosa è meglio per loro, noi sì”. Una sorta di elitismo di stampo paternalistico, ormai radicato nell’autopercezione delle classi dirigenti turche.

 

In altre parole l’approccio dall’alto al basso alla democrazia (we know best democracy) è stato assorbito dai decisori dell’Akp ma risale alle élite repubblicane e kemaliste. La stessa proposta, suggerita recentemente dal partito al potere, di introdurre un sistema presidenziale sul modello statunitense esplicita la tendenza a non discostarsi dal modello politico precedente. Vieppiù, i dirigenti islamico-moderati hanno ingaggiato un lungo confronto politico e culturale per ridurre il ruolo dei kemalisti - in particolare i militari - nella società e sostituirsi ad essi.

 

Se l’approccio politico-dottrinario alla concezione del potere accomuna Akp e kemalisti, per altro verso lo scontro ideologico sulle radici della Repubblica turca si fa sempre più aspro.

 


[Carta di Laura Canali]

 

La frattura all’interno della società è riemersa nel corso della celebrazione dell’ottantanovesimo anniversario dalla fondazione della Repubblica turca, quando i principali oppositori del partito di Erdoğan hanno sfidato il divieto di manifestare in difesa “della patria e della Repubblica”: Dimitar Bechev dell'Ecfr sostiene che il Partito Popolare Repubblicano - Chp, il più prossimo alle posizioni di Atatürk - abbia voluto rivendicare la ricorrenza e denunciare l’Akp di coltivare un “progetto segreto” di re-islamizzazione del paese, rimettendo in discussione le fondamenta laiche e secolari della Turchia moderna. Occorre ricordare che nel 2007 l’allora leadership del Chp invocò apertamente un intervento dei militari per “deporre il governo islamista”.

 

La Turchia del XXI secolo è uno “Stato a laicità controllata” secondo lo studioso Pinar Tank. Al suo interno vi sarebbe un aspro confronto tra l’idea (sostenuta da militari e laicisti) secondo cui la religione debba essere relegata alla sfera privata e la convinzione (di Akp, islamisti moderati e maggioranza del ceto medio) che la religione dovrebbe rimanere nella sfera pubblica “controllata” . Siffatta divergenza è spiegabile analizzando la versione turca del secolarismo da Atatürk in avanti: un modello in cui non vige una separazione tra Stato e religione, ma piuttosto una limitazione - a volte soppressione - dell’Islam da parte della giunta militare.

 

Nell’ex Sublime Porta l’Islam politico ha peraltro trovato terreno fertile grazie al lavoro pluridecennale di confraternite, scuole e centri di matrice islamica. Rimarchevole è stato il ruolo della comunità religiosa di Fethullah Gülen, miliardario magnate auto-esiliatosi negli Stati Uniti e fonte di ispirazione per numerosi dirigenti del partito di Erdoğan. Nel 2008 Gülen era stato incoronato dai lettori di Foreign Policy come “l’intellettuale più influente al mondo”, mentre la sociologa Nilufer Göle ha definito quella di Gülen “la rete musulmana più potente del mondo”.

 

Il paradigma della modernizzazione attuata da Mustafa Kemal è continuamente rimesso in discussione da alcuni intellettuali di estrazione gülenista. Secondo costoro, Ankara avrebbe iniziato il processo di modernizzazione ben prima dell’avvento di Atatürk al potere: le Tanzimat (riforme) del 1839 e la costituzione del 1876 dell’impero Ottomano avrebbero limitato il potere del sultano, aumentato i diritti individuali e il liberalismo economico.

 

La riduzione del ruolo dei militari in politica, unitamente all’emendamento presentato dall’Akp per abrogare ogni riferimento ai “principi di Atatürk” e al “secolarismo”, va inquadrata nel tentativo dell’élite islamico-moderata di porre la Turchia alla testa del variegato mondo musulmano-sunnita. Tale aspirazione è stata esplicitata dall’attuale ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu in diversi scritti accademici. 

 

La Turchia di Davutoğlu è una civiltà-ponte che collega tre continenti (Europa, Asia e Africa), con un ruolo di potenza centrale e autonoma, simile a quello della Germania in Europa, evocativo parallelo che Davutoğlu offre spesso ai suoi interlocutori. Impiegando la dialettica di Samuel Huntington, Davutoğlu edifica la sua impalcatura teorica di una Turchia alla stregua di “civiltà originale”, frutto della contaminazione tra l’unicità dell’Islam, le diverse culture incrociatesi nello spazio anatolico e la predisposizione geografica pluri-fronte.

 

Avendo assorbito taluni dettami del passato kemalista ma, allo stesso tempo, riscoprendo la tradizione ottomana e i valori dell’islam, la classe dirigente dell’Akp potrebbe trasformare la Turchia (e il processo è in fieri) in un modello statuale ibrido: una sintesi tra l’architettura istituzionale dello Stato moderno e il sostrato storico-culturale di un impero multinazionale, quello ottomano.