Thailandia. Si accentua la crisi istituzionale, monito americano (Misna)

14.05.2014 15:00

Gli Stati Uniti, che vedono con preoccupazione intensificarsi la crisi interna al paese, hanno fatto sapere all’alleato thailandese che preferirebbe che la soluzione escludesse un intervento diretto delle Forze armate e fosse in accordo con lo stato di diritto.

Negli ultimi anni i rapporti di Washington con Bangkok sono andati raffreddandosi per la mancanza di interlocutori validi e permanenti, ma anche per la graduale chiusura del paese asiatico verso l’esterno per mascherare la propria crisi e le responsabilità diverse ma concomitanti di una situazione senza precedenti. Di fatto, pare di capire, Washington vorrebbe nuove elezioni e una riforma in tempi rapidi che evitino la creazione di un buco nero in un’area strategicamente determinante in funzione di contenimento verso la Cina. Una voce tra molte, quella di Washington, immediatamente diventata oggetto di valutazioni contrastanti sui media e nelle piazze.

Altrove il termine “caos” sarebbe adeguato a segnalare la situazione della Thailandia dopo otto anni di crisi e sei mesi di dura protesta; senza un parlamento da dicembre 2013, con un governo ad interim dimezzato e sotto assedio, con il solo Senato (per metà non eletto) tra le istituzioni statali attive e a sua volta sotto attacco dei filo-governativi che oggi hanno chiesto l’arresto del suo presidente. La colpa? Avere aperto da ieri un dibattito con varie forze per superare la crisi in corso mettendo sul tavolo delle trattative anche la possibilità di un governo di transizione con approvazione reale.

Così, mentre il Centro per la gestione dell’emergenza (Capo) ha ancora al vertice formale il ministro del Lavoro, tra quelli destituiti per abuso di potere dalla Corte costituzionale la settimana scorsa insieme alla premier, e sostiene quello che resta del governo contro l’opposizione, il Comando per le operazione di sicurezza interna (Isoc) ha chiesto a Senato e Corte costituzionale di chiarire da chi dipende ora per coordinare i vari servizi di sicurezza civili e militari.

I capi della protesta sono da tre giorni di base all’interno del complesso del palazzo del governo, circondato da decine di migliaia di seguaci, a fianco di una base delle Forze armate evacuato in quella che i vertici militari hanno detto essere una mossa per evitare tensioni e i filo-governativi ritengono invece un segnale di accondiscendenza verso la protesta.

A questo si aggiungono le voci – smentite ancora oggi dal comandante – dei preparativi in corso da parte della Prima regione militare per reprimere le Camicie rosse filo-governative che da venerdì occupano una vasta area alla periferia occidentale di Bangkok. Una contro-manifestazione che anch’esse intendono portare fino in fondo per quella che sostengono essere la difesa della democrazia, dopo che la scorsa settimana la Corte costituzionale ha sollevato dall’incarico la premier Yingluck Shinawatra e la Commissione nazionale anti-corruzione ne ha chiesto l’impeachment da parte del Senato.

Così, come il governo dimezzato non può ordinare alla Commissione elettorale di emettere il decreto che aprirebbe la via a nuove elezioni a luglio, non vi è certezza sulla legalità di un’eventuale richiesta del Senato al sovrano di promuovere al premierato una personalità indipendente come previsto dall’articolo 7 della costituzione in caso di crisi.

In una situazione sempre più complessa e con sempre più attori coinvolti, appare sempre più evidente l’incapacità delle parti di vedere oltre gli interessi dei protagonisti di questa lunga crisi ma, più oltre, di partecipare in modo attivo e consapevole alla comunità regionale e globale. Le differenze tra le fazioni non sono ideologiche ma di interessi contrapposti che alimentano nazionalismo e scelte educative, sociali, economiche limitate, non in grado di imparare da esperienze straniere e senza alcuna volontà di coinvolgere la comunità internazionale in funzioni di mediazione.

Il rischio è che la Thailandia, diventata con il credito e il supporto straniero attore economico di primo piano nel Sud-Est asiatico, rischi l’emarginazione non solo per l’incapacità di aderire alle regole internazionali, anche per il suo isolamento in un momento di eccezionale incertezza interna.