Sguardi (In giro per il mondo) - Misna, 15 maggio 2013

15.05.2013 12:38

(America Latina) COMPIE CENT’ANNI LA FERROVIA ARICA-LA PAZ

Un prodigio dell’ingegneria, paragonato all’epoca, al Canale di Panamá: è la ferrovia che collega il porto cileno di Arica all’altopiano boliviano di La Paz, 400 km di binari che salgono dall’oceano a 4100 metri sul livello del mare, di cui si festeggia in questi giorni il centesimo compleanno.

Concepito per unire i due paesi che 30 anni prima si erano affrontati nella Guerra del Pacifico (o Guerra del salnitro, 1879-1884), il ‘ferrocarril Arica – La Paz’ fu uno degli impegni sottoscritti dal Cile nel Trattato di pace e amicizia del 1904 che fissò i limiti territoriali dopo il conflitto in cui la Bolivia perse il suo accesso al mare. Costò la vita a centinaia di operai e 315 milioni di dollari, ma consentì alla Bolivia di avere un collegamento veloce con l’oceano.

Lavori di ristrutturazione avviati nel 2010 da Santiago, con investimenti fino a 45 milioni di dollari, si sono da poco conclusi, ma, tuttavia, la ferrovia funziona ancora a fasi alterne. Le tensioni bilaterali – la Bolivia vuole recuperare il suo accesso al mare e ha denunciato formalmente il Cile alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia – mantengono infatti semiparalizzata un’importante via di comunicazione sulla quale arrivarono a transitare fino a 100.000 tonnellate annue di merci che secondo fonti ufficiali potrebbero diventare, oggi, 600.000.

L’auspicio di diversi settori dell’industria regionale è che la ferrovia possa riprendere a funzionare in modo affidabile: decongestionerebbe, tra l’altro, il valico di frontiera di Charaña, il più alto del mondo (4200 metri s.l.m.), da dove transitano ogni giorno almeno 700 tir.

(Nigeria) PROCLAMATO STATO D’EMERGENZA A BORNO, YOBE E ADAMAWA

In un discorso al paese, trasmesso ieri sera in diretta tv, il presidente Goodluck Jonathan ha dichiarato lo stato di emergenza negli Stati settentrionali di Borno, Yobe e Adamawa, disponendo l’invio di rinforzi militari e autorizzando l’utilizzo di misure straordinarie per fermare le violenze collegate al gruppo estremista Boko Haram.

Il provvedimento, che sarà inviato oggi all’Assemblea nazionale per la ratifica, prevede rigide anche restrizioni alle libertà costituzionali: il quotidiano This Day riferisce che il capo di stato maggiore della difesa, Ola Sa’ad Ibrahim, è stato incaricato di “usare l’intero arsenale a sua disposizione per arrestare e trattenere sospetti terroristi, occupare qualsiasi edificio sospetto e catturare persone sospettate di essere in possesso di armi”.

Il presidente ha spiegato che la decisione di imporre lo stato d’emergenza a Borno, Yobe e Adamawa è dovuta al fallimento di altre strategie, incluso, il dialogo, pur precisando che questa opzione resta comunque aperta. “Questi terroristi e insorti sembrano determinati a stabilire il controllo e l’autorità su zone della nostra amata nazione e progressivamente travolgere il resto del paese. In molti luoghi hanno distrutto la bandiera nigeriana e altri simboli dell’autorità statale e al loro posto hanno issato strani vessilli che suggeriscono l’esercizio di una sovranità alternativa” ha detto il presidente. Ha fatto particolare riferimento ad “alcune zone settentrionali dello Stato di Borno, prese da gruppi fedeli ad altre bandiere e ideologie”.

“Hanno attaccato edifici governativi e strutture Hanno assassinato cittadini innocenti e funzionari statali. Hanno dato case alle fiamme e preso in ostaggio donne e bambini” ha insistito Jonathan, ritenendo che tali azioni equivalgono a una dichiarazione di guerra che il suo governo “non tollererà”.

A differenza di quanto accaduto per due volte durante la presidenza di Olusegun Obsanjo (1999-2007), imponendo lo stato d’emergenza Jonathan non ha destituito i governatori dei tre Stati.

(Bolivia) LEGGE SULLE PENSIONI, LE PROTESTE CONTINUANO

Il governo e la Central Obrera Boliviana (Cob) si sono accordati nella notte per istituire una commissione di 15 membri incaricata di esaminare le rivendicazioni del principale sindacato del paese andino, protagonista da nove giorni di una mobilitazione per la riforma della legge sulle pensioni.

Lo hanno fatto al termine di una giornata di tensione che ha visto la capitale La Paz semiparalizzata da migliaia di lavoratori con marce di protesta e blocchi stradali. Tra slogan contro l’esecutivo e scoppi di petardi e piccole cariche di dinamite, i manifestanti sono stati tenuti lontani da Plaza Murillo, la piazza che ospita il palazzo del governo e il Congresso, per timore di disordini.

L’intesa raggiunta tra le parti rilancia un negoziato finora difficile, pur tra molte difficoltà. Il ministro dell’Interno, Carlos Romero, ha usato toni duri nel condannare le proteste, mentre José Luis Delgado, della Cob, ha confermato che nonostante la ripresa del dialogo la mobilitazione proseguirà e si rinforzerà a partire da oggi in diverse zone del paese. Media locali hanno confermato di manifestazioni in programma anche a El Alto, Santa Cruz, Tarija, Sucre, Trinidad, Cochabamba e Oruro.

La Cob chiede che la legge sulle pensioni venga rivista per garantire ai lavoratori di percepire un compenso pari al 100% dell’ultimo salario e non solo al 70% come previsto dalla normativa. Il governo ritiene la richiesta insostenibile e in cambio propone solo un cntenuto aumento della pensione minima.

(Zimbabwe) SENATO APPROVA NUOVA COSTITUZIONE, ORA LA FIRMA DI MUGABE

Settantacinque senatori su 94 hanno approvato il testo della nuova Costituzione dello Zimbabwe, una settimana dopo il voto della camera bassa del parlamento. A questo punto, l’ultimo passaggio istituzionale per la promulgazione è la firma della legge fondamentale da parte del presidente Robert Mugabe. Lo scorso marzo, con un referendum, il 94% degli aventi diritto si era espresso a favore della nuova Costituzione, che sostituirà quella in vigore dal 1980.

“La legge fondamentale sottoposta al vostro voto rappresenta una tappa importante verso il nuovo Zimbabwe” ha dichiarato il ministro per gli Affari costituzionali, Eric Matinenga, nel consegnare il documento ai senatori. La stampa locale ed internazionale ha riferito che al termine della votazione i parlamentari hanno cantato e ballato per festeggiare l’esito positivo. Come previsto, nelle due camere del parlamento il testo ha ottenuto senza difficoltà i due terzi dei voti necessari alla sua approvazione. L’adozione della Costituzione è uno dei punti centrali di un compromesso raggiunto nei mesi scorsi fra i tre principali partiti dello Zimbabwe, rappresentati nel governo di unità nazionale nato dopo la crisi politica e le violenze elettorali del 2008. Da allora il potere è condiviso tra il presidente Mugabe, in carica dal 1980, e il primo ministro di opposizione Morgan Tsvangirai.

Tra le novità previste dalla Carta fondamentale ci sono un limite di due mandati consecutivi alla guida dello Stato e una riduzione dei poteri del presidente nei rapporti con l’esecutivo, il parlamento e la magistratura. Inoltre il testo protegge i cittadini da ogni forma di violenza e tortura oltre a garantire la libertà di espressione.

Ma ad Harare i due principali leader politici guardano già oltre la promulgazione della nuova Costituzione: entro la fine dell’anno dovrebbero tenersi elezioni legislative e presidenziali, la cui data non è stata ancora stabilita. Sta per concludersi l’aggiornamento delle liste degli aventi diritto, cominciato il 30 aprile. In un clima politico carico di attesa e tensioni in vista della prossima scadenza elettorale, nelle ultime settimane le autorità hanno fatto arrestare almeno due attivisti e due giornalisti accusati di presunti insulti al capo dello Stato e di pubblicazione di notizie false ed offensive.

(Ruanda) CROLLO A NYAGATARE, INCHIESTA IN CORSO

È di sei vittime il bilancio del crollo di un edificio in costruzione avvenuto ieri a Nyagatare, 100 chilometri a nord di Kigali, nella provincia orientale del paese. Lo riferisce un comunicato diffuso poco fa dalla polizia secondo cui altre 15 persone sono tuttora ricoverate in ospedale in seguito alle ferite riportate e 14 sono state dimesse.

All’indomani dell’incidente, avvenuto nel pomeriggio di ieri, sembra dunque scongiurato il rischio paventato subito dopo il crollo, di un bilancio di decine di morti.

Le ricerche di superstiti, durate tutta la notte sono state concluse e l’area “è stata setacciata del tutto” precisano le forze dell’ordine confermando che un’inchiesta sulle cause del crollo tutt’ora sconosciute è già in corso.

Intanto il governatore della provincia ha annunciato il fermo di tutti i cantieri appaltati alla società di costruzioni dell’edificio crollato, per accertamenti. Pare che molti dei manovali coinvolti nell’incidente fossero lavoratori informali e senza regolare contratto.

(Mali) RICOSTRUZIONE ED ELEZIONI, A BRUXELLES UNA CONFERENZA PER IL FUTURO

“Insieme per il rinnovamento del Mali”: è il tema della conferenza internazionale dei donatori, con la partecipazione di 80 nazioni e dieci capi di Stato, che si apre oggi a Bruxelles con l’obiettivo di raccogliere quasi due miliardi di euro per la ricostruzione politica e materiale del paese del Sahel. L’ex colonia francese è stata pesantemente indebolita e distrutta da due anni di conflitto nelle regioni settentrionali, teatro di una ribellione tuareg ed islamica sconfitta da un intervento militare internazionale.

Nella capitale belga il presidente di transizione Dioncounda Traoré e il suo governo presenteranno un piano di sviluppo da attuare nei due prossimi anni e dal costo stimato in 3,9 miliardi di euro. L’Unione Europea e la Banca mondiale si sono già impegnate a sbloccare 520 milioni e la Francia, in prima linea nella crisi maliana, dovrebbe mettere a disposizione 280 milioni. In cima alle priorità di Bamako c’è la ricostruzione della rete di elettricità, di distribuzione dell’acqua e di altre infrastrutture di prima importanza nei tre capoluoghi settentrionali di Gao, Kidal e Timbuctù, occupati dai ribelli per più di un anno. Ma l’esecutivo di transizione intende riabilitare l’amministrazione pubblica nel nord – una vasta regione desertica spesso dimenticata dalle istituzioni – e investire nei settori della sanità e dell’istruzione. Al suo arrivo a Bruxelles, Traoré, ha assicurato ai partner internazionali che “faremmo di tutto affinché le elezioni si svolgano il 28 luglio” e ha ribadito che “né io né alcun membro del governo di transizione sarà candidato”. Per il presidente di transizione il voto rappresenta “un sfida che dobbiamo vincere perché siamo convinti che i problemi veri del Mali potranno essere risolti soltanto da un governo eletto e legittimo”. Il costo stimato dell’organizzazione delle presidenziali ammonta a 80 milioni di euro; l’eventuale ballottaggio è previsto ad inizio agosto. Se la comunità internazionale non condiziona i suoi aiuti alla scadenza elettorale, in più occasioni ha ribadito che Bamako deve rispettare il calendario previsto.

Inoltre i donors hanno già espresso timori per possibili appropriazioni indebite dei fondi sbloccati o per un utilizzo errato, ma il governo maliano si è impegnato a far approvare in tempi brevi una legge di lotta alla corruzione, in un paese dominato dal clientelismo e nepotismo.

La crisi cominciata nel gennaio 2012, con un’offensiva armata della ribellione tuareg indipendentista del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla) poi scavalcata da gruppi ribelli islamici legati ad Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), ha causato la fuga di 480.000 persone, di cui 290.000 sono sfollati interni. Almeno tre milioni di maliani vivono in condizioni di insicurezza alimentare anche per via della siccità che nel 2012 ha distrutto parte dei raccolti. Dopo il colpo di stato militare che il 22 marzo 2012 ha destituito l’ex presidente Amadou Toumani Touré, la comunità africana ed internazionale ha sospeso la cooperazione con Bamako, causando un crollo del 30% nelle entrate nel bilancio pubblico. Secondo il Fondo monetario internazionale, nel 2012 il Mali è entrato in una fase di recessione economica. Lo scorso gennaio, una prima conferenza dei donatori tenuta ad Addis Abeba aveva raccolto 455 milioni di dollari destinati a finanziare il dispiegamento delle truppe africane nell’ambito della Missione internazionale di sostegno al Mali (Misma). A luglio dovrebbe subentrare una missione di mantenimento della pace a guida Onu.

(Colombia) PROCESSO DI PACE, “URGE UN ACCORDO”

Il ritmo con cui è stato portato avanti sinora lo storico processo di pace tra governo e guerriglia è “insufficiente”: lo ha detto il capo negoziatore dell’esecutivo, Humberto de la Calle, sottolineando l’urgenza di raggiungere un accordo in tempi più stretti, nell’ambito di un negoziato che il 19 maggio avrà compiuto già sei mesi.

Le parti si stanno per ritrovare a Cuba per la nona tornata di colloqui ma restano arenate sul primo punto dell’agenda: la riforma agraria, rivendicazione alla base della nascita e la sollevazione in armi, mezzo secolo fa, delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc).

Rappresentanti della guerriglia hanno lasciato intendere che un accordo sul primo punto sarebbe vicino, sebbene tuttavia non ci siano ancora certezze. Solo in seguito sarà affrontato il secondo tema in agenda, quello delle garanzie affinché la guerriglia possa partecipare alla vita politica.

Il clima del negoziato è tornato peraltro carico di tensione dopo l’uccisione da parte dell’esercito, il 4 maggio, di Leonidas Zambrano Cardozo, alias ‘Caliche’, uno dei ribelli più vicini a ‘Pablo Catatumbo’, unitosi recentemente alle trattative.

(Centrafrica) DJOTODIA A N’DJAMENA, PRIMO VIAGGIO PER L’EX-RIBELLE

Il ristabilimento della sicurezza e la tutela di uno Stato laico: sono stati gli argomenti affrontati dal nuovo uomo forte di Bangui, Michel Djotodia, durante un colloquio avuto a N’Djamena col suo omologo ciadiano Idriss Deby Itno. Per il suo primo viaggio all’estero dal suo insediamento al potere con un colpo di Stato della coalizione Seleka, lo scorso 24 marzo, l’ex capo ribelle si è recato nel confinante Ciad, paese al quale la storia del Centrafrica è legata a doppio filo.

“Sono venuto qui per ringraziare il presidente Deby per tutti gli sforzi profusi per il ristabilimento della pace in Centrafrica” ha dichiarato Djotodia, nominato presidente il mese scorso dal Consiglio nazionale di transizione per un mandato di una durata di 18 mesi. “Abbiamo avuto colloqui fruttuosi durante i quali il presidente ciadiano mi ha chiesto di rispettare gli impegni presi di fronte alla comunità internazionale” ha aggiunto l’ex capo ribelle. Deby, attuale presidente di turno della Comunità economica dei paesi dell’Africa centrale (Ceeac), lo ha invitato ad “assicurare la sicurezza delle persone e dei beni”, a “ristabilire il controllo dello Stato su tutto il territorio nazionale” e a “organizzare elezioni libere e trasparenti”. Le linee guide della transizione in corso a Bangui sono state definite dai paesi dell’organismo regionale e dagli accordi di pace firmati lo scorso 11 gennaio a Libreville tra l’allora presidente François Bozizé e i vertici della ribellione, tra cui lo stesso Djotodia.

Fino a pochi mesi fa Deby è stato uno strettissimo alleato dell’ex presidente Bozizé, che nel 2003 arrivò al potere con un golpe e grazie al sostegno del Ciad. Se N’Djamena ha ritirato da Bangui le forze di sicurezza ciadiane dedite alla protezione di Bozizé, ha mantenuto delle truppe che nei mesi scorsi hanno cercato di arginare l’avanzata della Seleka dal centro-nord verso la capitale. Ma d’altra parte, fonti concordanti della MISNA hanno confermato che tra i combattenti della ribellione centrafricana, accusati di saccheggi e gravi violazioni dei diritti umani, c’è una maggioranza di cittadini ciadiani e sudanesi.

Il presidente centrafricano proseguirà la sua visita a Libreville, dove si apre oggi la conferenza dei capi di Stato della Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (Cemac). Djotodia ha anche previsto una “visita di amicizia e di lavoro” nel confinante Camerun, dove incontrerà il presidente Paul Biya, seguita da una tappa a Malabo, in Guinea equatoriale. Per alcuni osservatori il tour regionale di Djotodia è da leggere come un principio di riconoscimento del suo potere da parte dei capi di Stato dell’Africa centrale, che potrebbe essere seguito a breve da quello della comunità internazionale. Dopo il colpo di stato di due mesi fa, il Centrafrica, ex colonia francese, è stato sospeso dall’Unione Africana e diversi partner internazionali hanno interrotto la cooperazione con Bangui.

(Sudan) TENSIONE IN DARFUR, RIBELLI DENUNCIANO INGRESSO TRUPPE CIADIANE

Sale la tensione in Darfur, dove i vertici del movimento per la Giustizia e l’uguaglianza (Jem) hanno accusato le truppe ciadiane di aver passato il confine dirette verso le roccaforti del gruppo, nel nord della regione.

Il portavoce del gruppo Gibreel Adam Bilal ha ammonito l’ex alleato, il presidente Idriss Deby, di “conseguenze catastrofiche” nel caso di un coinvolgimento dei suoi militari nel conflitto sudanese. La vicenda si inserisce in un clima di accuse e interrogativi sollevati dopo l’uccisione – la scorsa settimana – di Mohammed Bashar, capo di una fazione dissidente del Jem che aveva avviato un negoziato di pace con Khartoum. I suoi fedelissimi sostengono che l’agguato in cui Bashar e il suo vice sono stati uccisi si è verificato in territorio ciadiano.

Sostenitore del Jem durante gli anni del conflitto in Darfur e mediatore del negoziato di pace di Doha, Deby ha interrotto le sue relazioni con il gruppo ribelle in modo plateale nel 2011, negando all’allora leader del movimento Khalil Ibrahim, in fuga dalla Libia in preda alla rivoluzione contro Muammar Gheddafi, di riparare a N’djamena.

Ieri, per la prima volta dalla morte di Kahlil nel dicembre 2011, Bilal ha accusato il Ciad di essere dietro la sua uccisione e ammonito che “il Jem riterrà Deby direttamente responsabile della morte di altri leader del gruppo che si dovessero verificare nei prossimi giorni”.

Il portavoce del movimento si è spinto oltre, accusando chiaramente il governo di N’djamena di essere responsabile di “crimini di guerra commessi durante il conflitto in Darfur” tra il 2003 e il 2007, affermando di avere “le prove del coinvolgimento di Deby, da consegnare alla Corte penale internazionale”.