(Segnalazioni culturali) Il testo misura di tutte le cose (Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 22 febbraio 2013)

25.02.2013 06:03

Si potrebbe cominciare da una nota, collocata a pagina 26, dove il linguista e critico letterario Gian Luigi Beccaria illustra benissimo l'idea di critica a cui è più affezionato: «La lettura linguistica è la migliore approssimazione didattica al testo. Anzitutto ha il pregio della concretezza. E abitua a coltivare la virtù della pazienza». Concretezza e pazienza sono indubbiamente due virtù rare nella critica letteraria attuale. Ma anche nella vita, dove prevalgono, quando ci sono, i rapporti virtuali e il più possibile rapidi. Alti su di me (Einaudi, pp. 269, 22) mette insieme, sin dal sottotitolo (Maestri e metodi, testi e ricordi), le due cose: analisi letteraria e umanità. Come se l'una nascesse dall'altra e viceversa. Difficile trovare un libro capace di mettere così ben a fuoco questa coesistenza di vita affettiva e di «felicità mentale», questo rapporto intimo tra le amicizie e la tensione critico-letteraria.
A rivelarlo è la stessa struttura del libro di Beccaria: una consistente cornice diciamo metodologica ed esemplificativa (la sezione finale tanto generosa da sbilanciare un poco la coerenza dell'impianto) e un corpo dedicato ai maestri e agli amici. Ma detta così, può sembrare una distinzione un po' artificiosa: in realtà, nel ricordare gli incontri cruciali della sua vita intellettuale, Beccaria ogni volta discute i modi e le prospettive di ciascuno, dando conto, insieme, del proprio percorso critico, che risulta via via alla luce di quell'intreccio di vite e di pensieri. È un'autobiografia fondata sul racconto di tante fedeltà. Un racconto di formazione. Un omaggio, come a significare che siamo fatti (anche) della stessa materia delle persone che abbiamo ammirato e amato. Anche l'ammirazione è un esercizio perduto, a cui Beccaria ci richiama, non tanto per un sentimento di umiltà, quanto, all'opposto, per quella che i teologi medievali chiamavano, tecnicamente, magnanimità: consapevolezza della propria misura. «Un grande amico che sorga alto su me / e tutto porti me nella sua luce, / che largo rida ove io sorrida appena / e forte ami ove io accenni a invaghirmi...» sono i bellissimi versi di Vittorio Sereni che l'autore pone in epigrafe e da cui trae origine il titolo.
Sicché il libro è sì la narrazione di un'esperienza intellettuale irripetibile: quella che tra gli anni Sessanta e gli Ottanta ha fatto dell'Università di Torino una vera e propria Scuola con maestri e allievi di altissimo valore etico oltre che culturale. Ma alla fine risulta come un exemplum, da tramandare ai posteri, di generosità nel comunicare da una parte (i maestri) e di disponibilità all'ascolto dall'altra (gli allievi), capaci di condividere passioni e intenzioni. Su tutti svettano il linguista Benvenuto Terracini (con cui Beccaria si è laureato) e il critico Giovanni Getto. Grandi «auscultatori» del testo. «Paterno e severo, cordiale e rigoroso» il primo, uomo indimenticabile e studioso «ribelle», «strutturalista dialettico» attento alle tensioni tra innovazione e conservazione, tra individuo e società, raro caso di linguista ipersensibile alla lingua letteraria, e ben lontano dalla tentazione di far prevalere il metodo o l'astrazione formalistica sull'oggetto di indagine. Il secondo, tenace fautore di una lettura non impressionistica in anni di crocianesimo imperante. Ambedue, Terracini e Getto, decisivi nel diffondere, ciascuno a suo modo, la lezione stilistica di Leo Spitzer e non estranei a incursioni «militanti».
È proprio la presa di distanza da ogni pregiudizio teorico come mera applicazione ciò che accomuna i maestri e gli amici più ammirati da Beccaria. «Fare squadra» con i coetanei Stefano e Angelo Jacomuzzi, Marziano Guglielminetti, Piervincenzo Mengaldo fu possibile anche per questa affinità, non cercata ma trovata come per una coincidenza astrale, e non solo per una vicinanza umana, testimoniata da tanti aneddoti che Beccaria sa sciogliere benissimo (e piacevolmente) nel «racconto saggistico». Anche i coetanei possono proporsi come esempi e modelli, se è vero che Claudio Magris ha insegnato all'autore a sottrarsi alle etichette e alle facili classificazioni: «Anche a me — postilla Beccaria — gli studiosi senza etichetta perpetua piacciono di più». Ci sono i «padri», come Giovanni Nencioni (cui viene dedicato un intenso ritratto) o Gianfranco Contini, e ci sono i fratelli e le sorelle maggiori, come Gianfranco Folena, D'Arco Silvio Avalle e l'indimenticabile Maria Corti; ma anche Cesare Segre, citatissimo quale «auctoritas» per la lucidità nella comprensione del tessuto verbale e per la capacità di trarne considerazioni di carattere più ampio. Ognuno meriterebbe un discorso a sé, tale è l'intreccio di elementi critici ed esistenziali che Beccaria disegna. E poi ci sono le presenze che non ti aspetti, di provenienze non necessariamente accademiche, come Andrea Zanzotto, Nuto Revelli, Gina Lagorio, non a caso inseriti in un album di «foto di famiglia».
«La nostra generazione» è un sintagma che Beccaria utilizza volentieri, a dare il senso, con una non celata dose di malinconia, di quella armonia perduta, di quel sentire comune che è andato smarrito. «Maturammo insieme», si dice di Guglielminetti.