(S.Sede/Riflessioni strategiche) La mappa dei cardinali americani. Pressing per il Papa "governatore" (Massimo Franco, Corriere della Sera, 18 febbraio 2013)

19.02.2013 05:05

Su una cosa sono più o meno tutti d'accordo: sarà difficile prescindere dal «partito nordamericano». Decidere il prossimo Papa senza concordarlo con il manipolo dei cardinali statunitensi significherebbe sottovalutare uno degli episcopati più potenti e influenti della Chiesa; e non solo per questioni finanziarie. Non conta il fatto che in tutto siano quattordici, inclusi due canadesi: la metà degli italiani con diritto di voto. Né che siano reduci da uno scandalo devastante dei preti pedofili, partito nel 2002 da Boston e dal quale stanno riemergendo. L'arcivescovo della città, Bernard Law, dovette dimettersi nelle mani di Giovanni Paolo II il 13 dicembre del 2002; e alla fine le diocesi americane hanno pagato oltre un miliardo di dollari per risarcire le vittime, chiudendo parrocchie e vendendo palazzi. Eppure, il cattolicesimo ha recuperato forza. L'afflusso di immigrati dal centro e Sud America fa lievitare il numero dei fedeli, che oggi negli Usa supera i 67 milioni.
Ma soprattutto, nell'atteggiamento nei confronti della Roma papale e sul modo in cui dovrebbe cambiare la Curia, le idee della pattuglia cardinalizia sono piuttosto convergenti. La presenza a Washington come nunzio (l'equivalente dell'ambasciatore) di monsignor Carlo Maria Viganò, l'ex segretario del Governatorato vaticano «esiliato» in America perché aveva osato denunciare «situazioni di corruzione e prevaricazione» ai vertici della Chiesa, garantisce una visione poco edulcorata di quanto accade a Roma. Viganò, nonostante le accuse rivolte al segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, è diventato un beniamino della Conferenza episcopale statunitense. C'è chi arriva a dire che, invece di essere l'occhio e l'orecchio della sola Santa Sede in terra d'America, sia il portavoce delle istanze del clero guidato dall'arcivescovo di New York, Timothy Dolan.
Dolan, presidente della Conferenza episcopale Usa dal novembre del 2010 e cardinale da un anno, nativo di St Louis e ratzingeriano di ferro, quando alcuni mesi fa gli è stato chiesto che pensasse delle vicende denunciate da Viganò, ha risposto seccamente: «Noi vescovi prendiamo per buono un decimo del gossip che proviene dal Vaticano». E Viganò «ci è piaciuto sempre di più» perché racconta la realtà curiale senza «le lenti rosa»: un modo per liquidare le beghe romane con una punta di fastidio. D'altronde, esponenti di primo piano dell'episcopato a stelle e strisce come il cardinale Francis George, capo della diocesi di Chicago e critico coriaceo di Barack Obama e dei democratici, confessano da tempo ai loro interlocutori di limitare le visite a Roma: le considerano inutili, per la piega sconfortante che hanno preso le cose vaticane.
È l'atteggiamento di una Chiesa che si è forgiata fin dall'inizio come minoranza e come «fede degli immigrati poveri», prima irlandesi, poi italiani e polacchi, poi latinos, rispetto alle versioni diverse del protestantesimo; ma che ora sembra determinata a giocare un ruolo sempre meno marginale nelle scelte della Santa Sede in questa fase di transizione. Da qualche tempo si parla di «momento americano» in Vaticano per la presenza, in realtà discreta, di alcuni statunitensi in ruoli chiave. Monsignor Peter Wells è il numero tre della Segreteria di Stato e partecipa spesso agli incontri di Bertone, facendogli da interprete per l'inglese.
Fino a pochi mesi fa, il cardinale William Levada, oggi a San Francisco, ha presieduto la Congregazione per la dottrina della Fede. E un'altra «eminenza», Raymond Burke, solido conservatore, presiede il massimo tribunale ecclesiastico. A loro si affiancano i capi di diocesi Usa strategiche: da quello di Washington, Donald Wuerl, a quello di Boston, Sean O'Malley, a Justin Rigali a Philadelphia. In più c'è Marc Ouellet, il canadese che guida la Congregazione dei vescovi e viene considerato un «papabile». Molti di loro hanno una lunga esperienza romana al Collegio Nordamericano, del quale Dolan è stato rettore negli anni Novanta. Michael Harvey conosce Roma da un quarto di secolo. «È un gruppo di grandi elettori, più omogeneo degli altri», spiega un osservatore statunitense alle questioni vaticane.
«Sono cardinali che uniscono modernità, ortodossia sui principi e senso di responsabilità», spiega. «E spingeranno perché venga eletto un Papa forte sul piano del governo. Un manager di Dio, se si può definire così». Si può, anche se la definizione rischia di avere un'eco troppo yankee. Agli occhi del mondo cattolico mondiale, la diversità statunitense finora è stata un limite, un fattore di diffidenza: troppo efficientismo, troppa potenza finanziaria. Per averne un'idea, seppure parziale, basta scorrere il curriculum di Carl Anderson, gran capo dei Cavalieri di Colombo, e per questo anche vicepresidente dello Ior. Si scopre che i «Cavalieri», un milione e ottocentomila, sono la maggiore compagnia di assicurazione cattolica: gestiscono polizze per 85 miliardi di dollari.
Anche per questo, quando si tratta di misurare i fondi destinati all'Obolo di San Pietro, gli americani sono al primo posto, seguiti da italiani e tedeschi. Nella lista dei «papabili», invece, appaiono sempre in coda. «Il Conclave non amerebbe eleggere una persona che proviene dalla superpotenza mondiale», teorizza Thomas Reese, della Georgetown University, l'ateneo dei gesuiti a Washington. «La gente penserebbe che la sua elezione sia stata combinata dalla Cia o "comprata" da Wall Street». In realtà, i rapporti con la Casa Bianca sono, a dir molto, tiepidi. Dolan è stato scelto, a sorpresa, per il suo profilo di tenace oppositore dell'agenda dei democratici su temi come aborto, matrimoni omosessuali, eutanasia: sebbene non sia descritto come un repubblicano ma come un democratico deluso.
Con Obama ha avuto sempre un rapporto duro, arrivando allo scontro sulla riforma dell'assistenza medica. Al punto che il Vaticano ha dovuto spesso attenuare le proprie aperture di credito alla Casa bianca per tenere conto della strategia e degli umori dell'episcopato statunitense. Un dettaglio minore: nella sua visita negli Usa, il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha riferito di avere parlato con Obama di molte cose, ma non di Benedetto XVI. La Casa Bianca vuole evitare di toccare temi sensibili che la porterebbero in rotta di collisione con il «Papa americano», come viene chiamato Dolan, 63 anni, figlio di un ingegnere aeronautico del Midwest. Eppure, c'è chi sostiene che per la prima volta, non è da escludersi del tutto che diventi Pontefice un cardinale degli Stati uniti. L'ha scritto il vaticanista del National Catholic Reporter, John Allen. Ma stranamente lo dicono anche alcuni italiani, che al Conclave del 2005 scartavano a priori un'ipotesi del genere.
È probabile che queste voci riflettano soprattutto l'incertezza e la confusione provocate dalle dimissioni di Benedetto XVI; e l'assenza di una candidatura «pronta». Quando qualche giorno fa è stato chiesto al «Papa americano» se pensasse al pontificato romano e universale, ha liquidato la prospettiva come «altamente improbabile». Ed ha scherzato con il giornalista della Saint Louis Gazette: «È per questo che lei si sta inginocchiando?». Il cronista ha insistito: non è che per caso alla fine potrebbe votare per sé? «No. In Conclave», è stata la replica secca di Dolan, «i matti non possono entrare».