Prove di pace tra Afghanistan e Pakistan (Daniele Grassi, AffarInternazionali, 4 marzo 2013)

05.03.2013 06:28

A metà febbraio, 25 container che trasportavano materiale bellico hanno lasciato l’Afghanistan in direzione Karachi (Pakistan), segnando, di fatto, l’inizio del ritiro della Nato dal paese. Sebbene siano tuttora in corso negoziati tra Kabul e Washington sulla possibilità di lasciare un contingente americano in Afghanistan anche dopo il 2014, si è, dunque, entrati nella fase conclusiva delle operazioni. Il quadro complessivo della situazione, tuttavia, appare quanto mai incerto e restano molti dubbi sulle reali possibilità di siglare un accordo con i talebani e sulle prospettive di pace nella regione.

Talebani
Prendendo atto dell’impossibilità di una vittoria militare gli americani hanno, negli ultimi anni, sempre più insistito per un accordo di reintegrazione dei talebani nel quadro politico afgano. Già nel 2012, Washington aveva avviato trattative preliminari, presto interrotte dai talebani, a causa del rifiuto americano di rilasciare i militanti in stato di detenzione. Da allora, si era entrati in una fase di stallo che sembra adesso parzialmente superata.

Nell’ultimo periodo, infatti, il processo di pace sembra aver subìto una decisa accelerazione, beneficiando del sostegno di un numero crescente di attori. L’11 gennaio, in occasione di un vertice negli Stati Uniti tra Karzai e Obama, si è deciso di stabilire a Doha la sede di rappresentanza del movimento talebano.

Più di recente, in occasione di un vertice trilaterale organizzato a Londra il 4 febbraio, i presidenti di Pakistan e Afghanistan hanno ribadito il loro impegno nel favorire un accordo che porti pace e stabilità nel paese e nel resto della regione. Non limitandosi a una generica espressione di volontà, hanno definito un periodo di sei mesi per concludere i negoziati. Si tratta di un obiettivo molto ambizioso, specie considerando le difficoltà che tale processo ha sinora incontrato.

A inizio febbraio, Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, ha smentito che vi siano stati progressi nelle trattative tra le parti, ribadendo l’indisponibilità del gruppo a negoziare con il governo di Karzai. I dubbi sulle capacità del presidente afgano di portare avanti eventuali negoziati (con l’approssimarsi del termine del mandato, la sua posizione va man mano indebolendosi) e i timori sugli effetti che una riabilitazione politica dei talebani avrebbe dal punto di vista della coesione nazionale, sono solo alcuni dei fattori che spingerebbero ad essere pessimisti nei confronti del processo che va adesso avviandosi. Sono in molti, tuttavia, a guardare con grande speranza ai progressi che sembrano registrarsi sul fronte pakistano.

Nuovo ruolo del Pakistan
Le relazioni spesso conflittuali tra i governi di Kabul e Islamabad avevano sino ad ora impedito che al Pakistan venisse attribuito un ruolo chiave nel processo di pace con i talebani. In considerazione dei forti legami esistenti tra una parte dell’apparato di sicurezza pakistano e il movimento talebano, una simile esclusione non poteva che compromettere in partenza ogni possibilità di successo. Tale tendenza sembra essersi invertita negli ultimi mesi del 2012.

Dal novembre 2012, sono stati 26 i talebani rilasciati dalle autorità pakistane. Sebbene si tratti di un importante passo in avanti, le modalità con cui tale decisione è stata attuata hanno sollevato più di un dubbio sulle reali intenzioni della autorità pakistane.

Secondo quanto riportato da ufficiali afgani e americani, infatti, non essendo stati consegnati alle autorità afgane, gli ex-detenuti si sarebbero già riuniti alle milizie talebane. Per evitare il ripetersi di simili episodi, a inizio febbraio, le autorità pakistane hanno comunicato l’attribuzione all’Alto Consiglio Afgano per la Pace di un ruolo formale nelle future operazioni dei prigionieri. Un passo in avanti importante, sebbene tardivo.

Solleva altrettante preoccupazioni la scelta delle autorità pakistane di non rilasciare i talebani di più alto rango ancora detenuti, tra cui il mullah Baradar. Ciò, infatti, sembrerebbe confermare la volontà pakistana di non privarsi di un’importante carta da giocare in sede negoziale, evidenziando quanto sia ancora ampio il deficit di fiducia esistente tra le parti negoziali.

Paci intrecciate?
Vari elementi lasciano supporre che sia in corso un processo di ridefinizione delle strategie di politica estera pakistana che coinvolgerebbe lo stesso teatro afgano. Ma non è ancora possibile comprendere la profondità e le ripercussioni che esso eventualmente produrrà sul contesto regionale. A questo proposito, è da sottolineare il dibattito interno sulla possibilità di negoziare con il Tehrik-i-Taliban Pakistan (Ttp), ombrello che riunisce varie milizie fortemente ostili al governo pakistano.

A metà febbraio, il governo pakistano ha invitato il Ttp ad aderire a un cessate il fuoco della durata di 30 giorni, come condizione preliminare per eventuali trattative. Il gruppo ha rifiutato l’offerta, ribadendo la propria indisponibilità a deporre le armi. Il timore da molti espresso è che l’offerta al dialogo avanzata dal Ttp a inizio febbraio non sia altro che il tentativo di guadagnare tempo in un momento in cui il gruppo appare molto diviso al suo interno e sempre più indebolito dalle operazioni militari condotte nelle agenzie tribali.

Sarebbe, inoltre, sempre più ridotto il consenso di cui i talebani godrebbero tra la popolazione locale, rendendo di giorno in giorno più evidente la necessità di una legittimazione politica che ne garantisca la sopravvivenza. Precedenti accordi tra governo e Ttp si erano generalmente rivelati controproducenti per gli interessi statali, finendo per concedere al gruppo il controllo de facto di alcune porzioni del territorio nazionale.

Ogni decisione su eventuali negoziati sarà comunque condizionata dai risultati delle elezioni politiche di maggio. È innegabile, tuttavia, che molto dipenderà anche dal processo di pace che si sta tentando di avviare in Afghanistan. Nel caso in cui questo acquisisse sempre maggiore vigore, infatti, il Ttp si vedrebbe privato di una importante sponda, ritrovandosi costretto a circoscrivere le attività sul territorio nazionale. Inoltre, un accordo che reintegri i talebani afghani nel tessuto socio-politico nazionale creerebbe non pochi problemi alla retorica propagandistica del Ttp, ostacolandone le attività di reclutamento.

Un processo di pace che si sviluppi su scala regionale avrebbe certamente maggiori probabilità di successo rispetto a iniziative dalla dimensione esclusivamente nazionale. Al momento, tuttavia, sono ancora numerosi gli ostacoli che rendono tale ipotesi di difficile attuazione. Inoltre, con l’avvicinarsi della stagione primaverile, i combattimenti torneranno nel vivo e ciascuna delle parti cercherà di accrescere il proprio potere negoziale. con molta probabilità sarà dunque il terreno di battaglia a determinare i rapporti di forza, fornendo utili indicazioni sui futuri assetti di potere in Afghanistan e nella regione circostante.

Daniele Grassi lavora come security analyst per Infocert.