(Pakistan) Pakistan: non si placano i conflitti intraislamici (Giovanni Bensi, Meridiani, 10 febbraio 2013)

11.02.2013 06:03

In Pakistan non si placano i conflitti interconfessionali fra musulmani sciiti e sunniti, dal 2007 in costante aumento. Anche lo scorso anno le festività per il nuovo anno islamico sono state un pretesto per risse e attentati fra diverse confessioni islamiche.

Il 14 novembre scorso è cominciato il primo mese dell’anno islamico, muharram. I primi 10 giorni di questo mese sono dedicati, per gli sciiti (da shiat Ali, “il partito di Ali”), alla festività di ashura che commemora il martirio dell’imam Husseyn per opera degli antenati degli odierni sunniti (da sunna, “tradizione”). Durante i 10 giorni dell’ashura gli sciiti svolgono processioni pubbliche durante le quali si flagellano a sangue e accompagnano questi riti con l’invocazione “shahsey-wahsey” (corruzione di “Scià Husseyn, oh Husseyn”). È abbastanza comune che nel corso delle processioni i flagellanti sciiti vengano alle mani con gruppi di sunniti. La rivalità può arrivare al punto che i sunniti compiano attentati contro istituzioni avversarie, cioè sciite, con morti e feriti. Ad unire sunniti e sciiti, in fatto di rivalità, c’è solo la comune inimicizia contro la setta (che però può essere considerata una vera e propria terza confessione islamica) della Ahmadiya, o Qadyaniya. Almeno sei membri di questa comunità furono uccisi nel 2011 per motivi di intolleranza religiosa.

Il 25 novembre 2012, ormai alla fine dell’ashura, l’esplosione di una bomba davanti a una moschea sciita nella località di Hangu, vicino a Peshawar, ha causato la morte di almeno 22 persone e più di 30 feriti. Nello stesso periodo altri due attentati si sono avuti a Dera-Ismail-Khan (che si trova nella stessa regione di Hangu) con 11 morti e oltre 70 feriti. Come ha scritto alcuni giorni dopo il quotidiano “Nawa-e waqt” di Lahore, non risulta che qualche organizzazione abbia rivendicato questi attentati. In passato violenze contro gli sciiti erano state compiute dai taliban pakistani o dagli estremisti del Lashkar-e Jhangvi (“Esercito di Jhangvi”), dal nome del terrorista Haq Nawaz Jhangvi che ne era stato il capo. Secondo i dati delle organizzazioni pakistane per i diritti civili nel 2012 ammontano a oltre 400 le vittime sciite di attentati.

Viene quindi fuori il problema di quale ruolo svolga la religione, particolarmente l’islam, nella politica pakistana e in che modo le rivalità confessionali intraislamiche influiscano su questa politica. La Costituzione della repubblica islamica del Pakistan definisce l’islam come religione dello Stato (il termine “islamica” entra anche nel nome ufficiale della repubblica) e prescrive che le leggi debbano essere compatibili con l’islam. La popolazione del Pakistan aderisce per il 95% all’islam e i musulmani appartengono per il 75% alla confessione sunnita e per il 25% a quella sciita.

Accanto a queste tradizioni religiose esistono altri gruppi che insieme formano circa il 5% della popolazione. Questi gruppi sono gli induisti (in gran parte emigrati in India fin dal 1947), i cristiani (con i quali sorgono continuamente conflitti per l’accusa, spesso pretestuosa, di tajdif, “bestemmia”), parsi/zoroastriani, bahai, sikh e buddisti. Agli adepti della comunità “neoislamica” Ahmadiya (Qadyaniya), fondata nel XIX secolo da Mirza Gulam Ahmad Khan di Qadyan, nel Punjab, viene per legge proibito di definirsi musulmani. Se nella maggioranza dei casi si tratta di scontri fra sunniti e sciiti, è vero che è in aumento anche la violenza, per esempio, fra deobandi e barelvi, due sottogruppi dell’islam sunnita sorti nel XIX secolo nelle località di Deoband e Bareilly nell’Uttar Pradesh indiano, dalle quali hanno preso il nome.

Oggi i deobandi rappresentano l’ala più “fondamentalista” dell’islam pakistano, che nel 1978 ha sostenuto il programma di islamizzazione dell’allora presidente Ziya ul-Haq. I deobandi sono oggi influenzati dalle idee dei Fratelli musulmani, fondati in Egitto nel 1928 da Hassan al-Banna, e da quelle di Abu-l-Ala Maududi, il teorico dell’integralismo islamico nell’India britannica nel periodo fra le due guerre mondiali. I deobandi tendono sempre più verso le posizioni della scuola hanbalita, ufficiale in Arabia Saudita, dalla quale sono usciti i wahabiti, noti per aver sostenuto la guerriglia cecena contro i russi e per la loro aspirazione a creare con la violenza un Emirato caucasico nelle repubbliche russe del nord Caucaso. I deobandi pakistani mantengono relazioni anche con formazioni jihadiste che operano in Asia centrale come il Movimento islamico dell’Uzbekistan (O’zbekiston Islomiy Harakati), guidato da Usman Adil (Osman Odil), dopo la morte (sembra in Afghanistan) del suo fondatore Tahir Yuldašev, e il Hizb ut-tahrir (“Partito della Liberazione”), del quale non si conoscono con esattezza neppure i capi.

Il “clero” pakistano di affiliazione deobandi aderisce ad un’organizzazione chiamata Jama’at ulema-e islam (Jui, Comunità degli ulema dell’Islam) attualmente divisa in tre frazioni. Negli anni ’80 del secolo scorso, durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, i deobandi della Jui, attraverso un’organizzazione chiamata Anjuman-e taraqqiyat-e islam (“Società per il progresso dell’islam”, oggi non più esistente, almeno con questo nome) assunsero praticamente il monopolio dell’istruzione nelle scuole dei campi per profughi afghani in Pakistan.

Per opera soprattutto di Sami-ul-Haq, considerato un grande conoscitore della cultura islamica e da molti anni rettore dell’università pakistana dei deobandi Darul Uloom Haqqaniya, agli insegnanti dei giovani afghani nelle scuole dei campi profughi fu raccomandato di (ri)scoprire due libri di Maududi in cui si illustrano i principi di un’educazione islamica fondamentalista. I due libri in questione sono “Il sistema islamico di educazione”(Islami nizam-e ta’lim) e “Il sistema islamico di istruzione e le misure attive per la sua introduzione in Pakistan”(Islami nizam-e ta’lim aur Pakistan mein us ke nifadh ki ‘amali tadbir). Questi due testi sono, per così dire, manuali per la formazione del “perfetto” talib, termine di cui in occidente conosciamo soprattutto il plurale taliban, che vuol dire, sì, “studenti”, ma che per Maududi e i suoi seguaci è anche l’abbreviazione di taliban-e ghayat, cioè gli “aspiranti all’estremo”, si intende della fede (o del fanatismo) islamico.