(Libia/Israele) La tormentata storia degli ebrei di Libia (Emiliano Di Silvestro, Limes online, 12 febbraio 2013)

13.02.2013 05:19
Presenti in Libia sin dall'antichità, gli ebrei sono stati sottoposti a dominazione turca, italiana e araba. Vittime dell'antisemitismo e dell'antisionismo, sono emigrati nel corso dei decenni, in particolare nel nostro paese. Oggi chiedono di poter tornare a visitare la loro terra d'origine.


[Libia, da A. GHISLERI, Atlantino storico, 1938]

Si presume che gli ebrei abbiano vissuto in Libia già a partire dalla distruzione del primo Tempio di Gerusalemme (586 a.C.). A quell’epoca, i fenici avevano fondato le città di Tripoli (Oea), Sabratha e Leptis Magna. I greci, ad est, Apollonia e Cirene.

 

L’Africa nord-occidentale era conosciuta con il nome di Barberìa. Le popolazioni che l’abitavano si chiamavano berberi. Per i greci i βάρβαρος erano i “balbuzienti”, ovvero tutti coloro che non parlavano la loro lingua.

 

Con il termine Libya, fino ai tempi di Erodoto (V sec. a.C.), ci si riferiva all’intero continente africano. Il termine cadde poi in disuso per essere reintrodotto solo con il colonialismo italiano, che lo utilizzò per indicare quell’area di conquista sulla sponda sud del Mediterraneo costituita da tre macroregioni: la Tripolitania ad ovest, la Cirenaica ad est, il Fezzan a sud-ovest.

 

Per oltre un millennio, ebrei e berberi vissero in nord Africa senza la presenza degli arabi. Fu una convivenza positiva e proficua. Alcune tribù berbere si convertirono alla religione ebraica, adottandone usi e costumi. Gli ebrei, in realtà, videro da sempre nei berberi un rifugio sicuro dalle insidie romane e cristiane e dai soprusi di Bisanzio.

 

Nuovi flussi di ebrei arrivarono in Libia dopo la distruzione del secondo Tempio da parte dei legionari di Tito (70 d.C.). Dalla città di Cirene, dove sorgeva una delle più fiorenti comunità israelite, si propagò nel 115 la famosa e cruenta rivolta contro l’imperatore Traiano, impegnato in Oriente con i parti. Gli ebrei furono schiacciati dalla controffensiva romana e costretti a ripiegare tra i berberi della sirtica (una regione paludosa tra la Tripolitania e la Cirenaica).

 

Il connubio berbero-giudaico si rinsaldò in seguito grazie alle ondate degli uomini di Maometto che, a partire dalla metà del VII secolo, risalivano l’Arabia alla ricerca di nuovi territori di cui impadronirsi e conquistarono il nord Africa. A condurre la resistenza berbero-giudaica in quella circostanza, fu la regina Kahina, berbera di etnia ed ebraica di fede.

 

Uccisa dalle milizie dell’emiro egizio Hassan ibn al Nu‘man durante l’ultima battaglia di Tarfa (in Algeria), l’eroina, prima di morire, ordinò ai suoi due figli di allearsi con i vincitori chiunque essi fossero stati. Abbandonata la fede ebraica, questi si convertirono all’Islam e sposarono i dettami del nuovo governatorato ricoprendone incarichi di prestigio. Stessa sorte toccò a molti ebrei e berberi che, senza sedere in posti di rilievo, dovettero convertirsi all’Islam per salvare la propria vita.

 

Con la caduta dell’impero romano d’Oriente (1453), dopo una breve periodo di dominazione spagnola (durata un ventennio), la Libia, a partire dal 1551, cadde e rimase saldamente nelle mani dell’impero ottomano fino al 1911.

 

Quando i turchi presero il potere, le condizioni della comunità ebraica erano deprimenti. A malapena si conoscevano i precetti religiosi e spesso si ignoravano riti e preghiere. Il rabbino Shimon Labi determinò un cambio di rotta. Profugo dalla Spagna, nel 1549 egli si trovava a viaggiare dal Marocco verso la Palestina quando s’imbatté nella miseria dei suoi correligionari di Libia. Decise così di rimanere presso di loro e prestare lì il suo servizio. In breve tempo, la comunità fu ricondotta alla Torah e la religione iniziò ad essere il centro della vita sociale.

 

Lo storico Renzo De Felice distingue tre fasi della dominazione turca in Libia. La prima va dal 1551 al 1711. In questo periodo il paese dipendeva da Costantinopoli che esercitò la propria giurisdizione attraverso i suoi Pascià. Ben poche notizie arrivarono circa gli ebrei, dato lo stato di arretratezza in cui si trovavano e la vaghezza delle fonti musulmane. La seconda fase va dal 1711 al 1835 e fu caratterizzata dal potere della dinastia dei Qaramanli. Molti studiosi concordano nel ritenerla la fase più favorevole per gli ebrei nel periodo ottomano. Nell’ultima fase, che va dal 1835 al 5 ottobre 2011, data dello sbarco gli italiani, furono i turchi a dominare.

 

Per gli ebrei, la dominazione ottomana non fu nel complesso un periodo negativo. Bisogna comunque tener conto che ci furono gravi ingiustizie. Nel 1870 venne assassinato un maggiorente della comunità, Saul Raccah, in seguito all’assunzione al trono di Abd ul-Hamid II, che aveva promesso di far rispettare anche agli israeliti la legge coranica. Inoltre, gli ebrei furono costretti a pagare pesanti dazi. Piuttosto si trattò di un progressivo, seppur lento miglioramento economico e culturale, pur sempre preferibile a un’intera dominazione araba.

 

A tal proposito, bisogna ricordare che, ancora ad inizio Novecento, al passaggio dell’arabo l’ebreo libico doveva scendere da cavallo. L’inviato de La Stampa Giuseppe Bevione, di rientro dalla Libia nel 1911, parlava di «distanza» tra la «ricchezza e la cultura degli ebrei e la miseria e ignoranza degli arabi». L’approssimazione più felice sembrerebbe quella di definire “simbiotica” la vita degli ebrei nella Libia araba e musulmana.

 

Degli arabi, gli ebrei adottarono usi e costumi, modificando anche la lingua. Nelle loro case si parlava uno strano dialetto arabo-giudaico, più vicino all'arabo che all'ebraico. Gli elementi nordici, turco prima ed italiano poi, rispetto a questa - seppur talvolta sanguinaria - “simbiosi”, vennero considerati come “estranei” e mai realmente integrati. Furono per gli ebrei piuttosto degli utili escamotage al fine di sottrarsi da una dominazione araba. Gli arabi stessi, del resto, terranno a distinguere tra una «vera» minoranza tripolina, quella ebraica, e una minoranza «non vera», quella italiana (seppur più massiccia).

 

Come riferisce lo scrittore Victor Magiar nel suo libro E venne la notte, un insegnate di arabo di Tripoli definiva gli israeliti «arabi di religione ebraica». Nel 1911, la Tripolitania contava 523.176 abitanti, di cui 14.282 erano ebrei. A Tripoli vivevano 29.761 persone, di cui 8.509 ebreee. Altre della stessa fede vivevano sparpagliate in villaggi limitrofi quali Nuahi el Arba, Gebel, Misurata, Zliten, Msellata, Homs. Sempre in periodo, in Cirenaica vivevano poco più di 2 mila ebrei, la maggior parte a Bengasi dove c’erano due tempi e un cimitero. Altre famiglie vivevano in località minori come Derna e Barce.

 

Per quanto riguarda il Fezzan, per il 1911 non ci sono dati; nel 1936 furono censiti 16 ebrei. Quanto di ebraico accadeva a Tripoli, avveniva anche a Bengasi. La città era il centro della vita culturale e politica. Qui si prendevano i contatti con le autorità internazionali, a cui spesso si faceva richiesta di sostegno politico, morale e tecnico.

 

La Tripoli ebraica si estendeva nella zona nord-occidentale della città, all’interno di quella che oggi viene chiamata "città vecchia". Il rione degli ebrei, da una parola araba, veniva chiamato hara. Questa era a sua volta suddivisa in tre aree: hara el Kbira (la grande), hara el Wèstia (di mezzo), hara Sghira (la piccola). Nella hara vivevano prevalentemente i poveri e la classe media. I benestanti e i ricchi risiedevano al di fuori del ghetto, nei quartieri moderni in stile europeo della città nuova.

 

Tutti gli ebrei libici erano molto religiosi e in genere desiderosi di accrescere il loro livello civile e culturale. Nonostante fossero in netta minoranza (meno del 4% della popolazione), una consistente fetta dell’economia locale era nelle loro mani. Questo dato però non deve confondere: gli ebrei di Libia furono poveri. Un terzo poté definirsi addirittura «cencioso»; tra loro c’era chi, con regolarità, praticava l’accattonaggio e chiedeva l’elemosina. L’altro terzo era composto da persone appena sopra la soglia della povertà. Solo nell’ultimo terzo c’era uno stretto nugolo di famiglie ultraricche, che controllavano gran parte dei commerci.

 

Tra queste spiccavano le famiglie Halfon, Hassan e soprattutto Nahum, di cui Halfalla Nahum fu uno dei maggiori esponenti, nonché una tra le voci politiche più influenti di tutta la comunità. Vigeva, in seno alla collettività, un forte ed efficiente sistema di welfare stabilito dall'interno: tutti dovevano versare qualcosa per i poveri. Esisteva un comitato preposto per questo. Non doveva mancare l’indispensabile, soprattutto per lo shabbat (il sabato, giorno sacro e di riposo per gli ebrei) e per le altre festività.

 

A Tripoli c’erano 44 sinagoghe, quasi tutte collocate nella hara. Gli ebrei potevano accedervi ogni giorno della settimana e pregare in un clima di relativa sicurezza. A inizio Novecento, i mestieri degli ebrei tripolini erano prevalentemente quello di fabbricante di nastri e passamanerie, droghiere, commerciante di bigiotterie, macellaio, falegname, negoziante ecc... Per iniziativa e opera di soli ebrei, nel 1909 fu fondato il primo giornale tripolino in lingua occidentale, l’«Eco di Tripoli», diretto da Gustavo Arbib. C’erano molti artisti girovaghi, tanti disoccupati e malati. Tra i mali più diffusi vi era la tracomatosi: infiammazione batterica degli occhi cronica e contagiosa.

 

L’Italia aveva istituito il Banco di Roma a Tripoli già a partire dal 1907, quando l’invasione era ancora una fantasia nella mente di alcuni giolittiani, in realtà piuttosto improbabile date le non felici esperienze di Eritrea e Somalia. Già dopo i primi segnali dell'arrivo degli italiani, gli ebrei tripolini avevano già ben chiaro quale avrebbe dovuto essere il loro compito: quello di cuscinetto tra la modernità europea e la cultura araba locale. Così, interponendosi, avrebbero sfruttato in modo migliore le loro peculiarità. Del resto, anche gli italiani sapevano benissimo che l’elemento più adatto per insinuarsi nell’animo dell’arabo era quello israelita.

 

Il Capo di stato maggiore, il gen. Alberto Pollio, subito dopo lo sbarco disse circa gli ebrei: «È raccomandabile avvalersi della loro destrezza negli affari. Trattarli con fermezza però senza asprezza». Gli yahùd (così gli ebrei erano chiamati dagli arabi) non opposero troppa resistenza alla penetrazione italiana, mantenendo un atteggiamento piuttosto neutro. Molti intravidero la possibilità di migliorare la propria condizione rispetto alla dominazione turca, che, pur non fomentando l’antisemitismo, non elevò mai l’ebreo a livello del connazionale arabo.

 

Gli ebrei di Libia si lasciarono colonizzare dagli italiani fino a quando poterono mantenere i loro costumi e, soprattutto, le loro usanze religiose. Di contro, opposero una ferma e puntuale resistenza contro ogni tentativo, talvolta ben celato, di «italianizzare» la loro comunità, nota tra l’altro, anche tra gli stessi ebrei, per il suo forse eccessivo, e spesso autocompiaciuto, conservatorismo.

 

Il rabbino Dario Disegni, di rientro dalla Libia nel 1914, si espresse così sui rabbini locali: «Essi hanno orrore di tutte le novità della civiltà europea e in ogni rabbino italiano, chiunque egli sia, vedono qualche cosa di peggio che un riformatore, un distruttore addirittura». Con lo scoppio della prima guerra mondiale, cui molti israeliti presero parte arruolati tra le file degli italiani, e la proclamazione della «guerra santa» da parte della Turchia, gli ebrei libici, comprese le frange più tradizionaliste, si guardarono dal manifestare apertamente le proprie pulsioni antieuropeiste ed antimoderniste. Si intravedeva infatti attraverso il conflitto la possibile liberazione della Palestina - dove già vivevano circa 65 mila ebrei, sopratutto russi, che, a partire dal 1882, avevano dato vita alle prime aliyah (ritorno in Palestina da parte degli ebrei della diaspora) - e la nascita dello stato d’Israele.

 

La realtà dell’ebraismo libico durante i primi anni di occupazione italiana si potrebbe riassumere così: una casta di ricchi amministratori israeliti - che avevano sposato in pieno l’europeismo ed il modernismo - si destreggiava nel tamponare gli istinti conservatori e repulsivi che sorgevano nel cuore della hara, dei giovani e dei diseredati. Per questi ultimi, la religione rappresentava l’ultimo baluardo di salvezza contro ogni perdizione. In numerosi casi i giovani, abbagliati dalla grandezza europea, abbandonati i precetti mosaici (anche l’osservazione del sabato), finirono in breve risucchiati dalla malavita locale.

 

I colonizzatori, dal canto loro, non esitarono ad applicare una serie di provvedimenti mirati a modificare le istituzioni ebraiche locali considerate da Roma «ripugnanti alla mentalità europea» e ad arginare, all’interno della comunità, il potere degli elementi più tradizionalisti e religiosi.

 

Il già citato rabbino Dario Disegni, in un passaggio dell’intervista rilasciata a «La settimana israelitica» (il più autorevole organo di stampa in quel momento) nel 1914, fotografa in maniera assai significativa il tipo di soggezione cui l’ebreo tripolino doveva sottostare: «La popolazione italiana in Libia è nella stragrande maggioranza siciliana, come lo sono quasi tutti i funzionari specialmente di grado inferiore. Ora, tutti questi elementi siciliani sono animati verso la popolazione ebraica da una vera e propria malevolenza che si manifesta in forme spesso assai acute di sopruso, d’ingiustizia o quantomeno di sgarberia. Accade così molto spesso di assistere a dialoghetti di questo genere: “Perché non siete venuti ieri a ritirare la vostra merce? - Era sabato, la nostra festa - Che sabato e non sabato! Se ieri era sabato per voi oggi per noi è domenica. Andatevene!”. L’elemento arabo - continuava Di Segni - non sarebbe di per sé né benevolo né ostile, ma sentendosi spalleggiato dai funzionari comincia a farsi forte. Non passa volta che quando sorge contesa tra un ebreo e un arabo, per cui devono intervenire gli uffici, subito non sia rivolta la domanda: “Ma tu sei ebreo, eh?” con una inflessione che non lascia dubbio che, nell’animo di chi la pronunzia, la decisione è già a priori tracciata sfavorevole per l’ebreo».

 

Mussolini sbarcò la prima volta a Tripoli l’11 aprile del 1926. Pietro Badoglio, forse nel ricordo dei libici il più spietato tra i governatori italiani, venne nominato governatore unico della Tripolitania e della Cirenaica il 24 gennaio del ’29. Nel 1931 l’Italia fascista aveva definitivamente avuto la meglio sulla Libia araba e musulmana.

 

In quell’anno il numero di ebrei in Libia era salito a 25.103. Di questi, 15.637 vivevano a Tripoli e 2.767 a Bengasi. La popolazione musulmana di Tripoli contava 42.654 persone. Complessivamente, gli ebrei rappresentavano il 3,57% dell’intera popolazione libica. Erano una comunità giovanissima, la fascia più consistente andava da 0 a 10 anni. Ogni famiglia si componeva in media di 4,38 membri. I matrimoni misti erano rarissimi e quando si verificavano riguardavano quasi sempre le donne.

 

Con l’avvento del fascismo da una parte e il consolidarsi del sentimento panislamico dall’altra, la posizione neutrale mantenuta dagli ebrei cominciò ad esser vista con crescente sospetto da parte degli arabi. I musulmani cominciarono a pensare che la condotta degli israeliti fosse finalizzata a far fortune sulle loro sventure. Non mancarono episodi in cui i fascisti, nelle dispute con gli arabi, presero apertamente le difese degli ebrei. Il corrispondente tripolino dell’«Israel», nel numero del 10 ottobre 1927, riferendo di un tentato assalto al quartiere ebraico da parte di arabi armati, scrisse: «Non possiamo non ringraziare di tutto cuore i militi fascisti, i carabinieri reali e la truppa metropolitana per il loro efficiente intervento e per il servizio d’ordine ammirabile che hanno istaurato e che mantengono tutt’oggi nel quartiere ebraico».

 

Ci furono, in Libia come altrove, degli ebrei fascisti. Ve ne erano soprattutto tra gli adulti di nazionalità italiana con bassa scolarizzazione. Indossavano la camicia nera con particolare orgoglio, considerandola un vessillo di dominio oltre che una garanzia di difesa. Qualcuno tra questi arrivò a ricoprire ruoli amministrativi di prim’ordine, come accadde a Raul Fargion, chiamato a gestire la segreteria amministrativa della federazione fascista di Bengasi.

 

Qualche anno più tardi, in un Teatro Miramare gremito, Italo Balbo – che, a partire dal 1 gennaio 1934, era divenuto governatore della Libia, succedendo a Badoglio – zittì una platea di 2 mila camice nere inneggianti “morte agli ebrei” dicendo: «Sin dalla mia adolescenza ad oggi ho avuto soltanto tre veri e sinceri amici; e volete sapere chi sono questi amici? Ebbene, tutti e tre ebrei».

 

Le tre principali questioni dell’ebraismo tripolino durante il fascismo riguardarono la scuola, il rabbino maggiore e il sabato. L’istruzione dei bambini israeliti, come si può immaginare, dipendeva molto dalle condizioni economiche della famiglia. Il Talmud Torah, ovvero la scuola rabbinica, era garantito a tutti. Era frequentata da bambini dai 6 ai 13 anni, che ricevevano insegnamenti sui precetti di base della legge mosaica. C’era comunque chi veniva privato anche di questo fondamentale insegnamento, sopratutto tra le donne più indigenti destinate al matrimonio e alla famiglia.

 

Al Talmud Torah, tuttavia, il bambino imparava a malapena e in maniera mnemonica le preghiere e come prender parte alle funzioni pubbliche. Questa formazione da sola non poteva ritenersi soddisfacente e soprattutto adeguata per il mondo moderno che li aspettava. I genitori delle famiglie più benestanti mandavano i propri figli alle scuole italiane o in quelle dell’Alliance israélite universelle, l’istituto fondato nel 1860 a Parigi con l’intento di assistere gli ebrei nel mondo. In questi casi l’educazione religiosa impartita privatamente. Nel 1925, l’allora presidente della comunità ebraica di Tripoli, S. Haggiag, presentò alla sovraintendenza scolastica un progetto per l’adattamento dei programmi vigenti nelle scuole italiane alla scolaresca ebraica. La proposta venne respinta. Solo due anni più tardi si introdussero classi sperimentali nelle quali veniva insegnato anche l’ebraico.

 

Nel 1929 a Tripoli circa 3 mila ebrei, di cui mille femmine, frequentavano le scuole elementari. Dei maschi solo una cinquantina riceveva un’istruzione privata. Vi erano poi dei volenterosi, circa 350, che al Talmud Torah abbinavano la frequentazione delle scuole governative. Altri 321 facevano parte delle classi sperimentali italo-ebraiche istituite due anni prima. 500 ragazze erano iscritte alle scuole italiane.

 

Per quanto riguarda la questione del rabbino maggiore, le autorità fasciste richiedevano, oltre alla cittadinanza italiana, che non fosse né troppo tradizionalista né troppo filo-sionista. Nel corso degli anni Venti e Trenta infatti, la corrente sionista in Libia si era intensificata. A Tripoli era sorto il primo Circolo Sion per opera del giovane fotografo e corrispondente dell’«Israel» Elia Nhaisi. Nel 1932 fu istituito anche il Circolo Maccabi, che promuoveva attività sportive e ricreative per i giovani ebrei.

 

Per quasi dieci anni il posto di rabbino maggiore restò vacante. Verso la metà del 1920 fu nominato Elia Samuele Arton che, nel suo discorso di insediamento, cercando di mediare tra le esigenze, disse: «A voi giovani spetta mostrare che Israele sa fondere armonicamente i dettami della sua vetusta legge con quel che di meglio ha la più evoluta civiltà moderna». Dopo tre anni fu costretto a dimettersi, denunciando una lotta intestina di potere tra uomini riconducibili al maggiorente Halfalla Nahum e un partito loro opposto.

 

Il posto rimase vacante fino al 1930 quando il ministero delle Colonie inviò a Tripoli come commissario rabbinico Dario Disegni, già vice rabbino di Torino (di cui abbiamo già menzionato alcuni interventi). Durò solo pochi mesi, il tempo di favorire la nascita di un nuovo periodico, «Il Messaggero israelitico», che ebbe un corso sfortunato. La comunità rimase di nuovo senza un capo. Nel 1933, l’Unione delle comunità israelitiche italiane indicò il rabbino di Padova Gustavo Castelbolognesi come «l’uomo adatto» a ricoprire questo ruolo. Egli, ereditando una situazione disastrosa di strutturale anarchia, si mise contro anche le autorità italiane che alla fine lo cacciarono.

 

Nel marzo del 1937, l’Unione delle comunità inviò in Libia il rabbino maggiore Aldo Lattes che resse la cattedra fino agli anni della seconda guerra mondiale. Il problema di fondo, relativo alla scelta del rabbino maggiore, era legato all’influenza che esercitava un forte, latente, partito anti italiano. Secondo il partito, le tradizioni dell’ebraismo tripolino dovevano essere tramandate da rabbini locali, gli unici ritenuti in grado, con il loro dialetto arabo-giudaico, di arrivare a tutte le persone, raggiungendo gli angoli più reconditi della hara.

 

Da sempre, il sabato ha rappresentato una delle questioni più urgenti per gli ebrei. La sovraintendenza scolastica per l’anno 1932-1933 stabilì che tutti gli israeliti iscritti negli istituti governativi dovevano andare a scuola anche il sabato, come già accadeva per i loro compagni della stessa religione in Italia. Questo provvedimento scosse molto la comunità e spettò a Balbo, forte della sua fama di antinazista e nemico dell’antisemitismo, il compito di imbonire gli ebrei tripolini, smorzandone al contempo le ambizioni politiche e ridimensionandone il prestigio. Doveva attuare, in sostanza, una «italianizzazione» blanda delle istanze più radicali, ferma restando la punizione dei più recalcitranti. L’«Avvenire di Tripoli» dell’8 dicembre 1936 riferiva come il giorno prima, nella piazza antistante la Manifattura dei tabacchi, alla presenza di molti arabi e italiani accorsi, il commerciante Sion Barda, il calzolaio Fituzi Ghebri e il vetraio Saul Nhaisi, furono pubblicamente fustigati con dieci colpi di kurbàsh per aver lasciato di sabato le serrande dei loro negozi abbassate.

 

Il 18 marzo 1937 Mussolini sbarcò di nuovo a Tripoli e innalzò in cielo la spada dell’Islam dichiarando che i musulmani libici dovevano sentirsi “fieri” di essere sottomessi all’Italia fascista e promise loro protezione. Poi andò dagli israeliti e disse loro: «l’Italia considera gli ebrei sotto la sua tutela, nessuna discriminazione razziale o religiosa è nella mia mente, restando fedele alla politica di eguaglianza di fronte alla legge e di libertà di culto».

 

Poco più di un anno dopo, il 14 luglio 1938, veniva promulgato il «manifesto della razza» che in Libia ebbe piena applicazione, sancendo l’inferiorità morale e giuridica degli ebrei anche rispetto ai musulmani. Si faceva divieto loro tra l’altro di avere domestici ariani o musulmani. Gli arabi più illuminati non furono contenti di questi provvedimenti, percepivano come avrebbero potuto colpire anche la loro gente. Significativo rispetto alla paradossale sintonia tra arabi ed ebrei quanto Balbo riferì al re Vittorio Emanuele III durante la sua visita in Libia nel 1938: «Gli arabi gridano, gridano e poi hanno bisogno degli ebrei come del pane e dell’aria. Vede, qui in Libia leticano, si odiano, si maledicono: ma finiscono per far lega in ogni occasione».

 

Ancora Italo Balbo, in una lettera a Mussolini del 19 gennaio 1939 - un anno e mezzo prima di morire abbattuto dal fuoco amico dell’incrociatore San Giorgio per essersi dimenticato di notificare il suo volo verso Tobruk - si esprimeva così: «in un paese come questo, che ha sempre avuto il grande vanto nei confronti dei Paesi vicini di consentire la più pacifica convivenza tra arabi ed ebrei, sarebbe a mio avviso consigliabile non dare caratteristica di asprezza alla lotta per la difesa della razza». Mussolini, quattro giorni dopo, gli rispose telegraficamente autorizzando l’applicazione delle leggi razziali e affermando: «gli ebrei sembrano ma non sono mai definitivamente morti».

 

Il 10 giugno 1940 l’Italia entrava nella seconda guerra mondiale. I primi a bombardare la colonia italiana di Libia furono i francesi, ma i danni più ingenti li produssero i bombardamenti inglesi che colpirono anche la hara seminando vittime tra gli ebrei e costringendo molti a fuggire da Tripoli. Tra il ‘40 e il ‘41 il sentimento antiebraico cominciò a crescere tra le autorità italiane, che temevano il loro possibile schieramento al fianco degli inglesi. Si andò così dalle accuse più banali, come quella di detenere il controllo sulla quasi totalità dei commerci fino ad accuse più gravi e dirette come quella di indicare agli inglesi, mediante segnali luminosi, obiettivi strategici da abbattere. Tra i primi provvedimenti antiebraici della gerarchia fascista ci furono il ritiro del monopolio del commercio all’ingrosso e la chiusura dell’associazione sportiva dei Maccabei, accusata di attività sovversive.

 

Il 7 febbraio 1942, l’allora ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, in una riunione del Consiglio dei ministri, riferì dell’«accanimento» con cui ebrei e senussiti della Cirenaica si erano schierati al fianco degli inglesi nella distruzione e nel saccheggiamento dei villaggi agricoli fatti edificare da Balbo. Mussolini per rappresaglia ordinò che tutti gli ebrei bengasini fossero inviati nei campi di concentramento. Circa 3 mila ebrei vennero trasferiti nel campo di internamento di Giado (200 km a sud ovest di Tripoli). In poco meno di un anno di detenzione, tra stenti o colpiti da tifo, ne morirono a centinaia. In agosto del ‘42 fu istituito a Sidi Azàz, 150 km ad est di Tripoli, un altro campo nel quale vennero radunati circa un migliaio di ebrei, destinati ad essere impiegati come lavoratori dietro il fronte e lungo le linee di comunicazione per l’Egitto. Tra il ‘41 e il ’42, gli inglesi portarono a compimento la conquista della Cirenaica. Nel corso del ’42, si inasprirono le misure italiane contro gli ebrei. Tre israeliti, Abramo Bedusa, e i fratelli Iona e Shalom Berrubbi, il 12 giugno del 1942 furono condannati a morte e fucilati con l’accusa di aver seguito gli inglesi. Svariate decine di ebrei furono reclusi con analoghi capi d’imputazione fino allo sbarco a Tripoli del generale Montgomery, il 23 gennaio 1943. Da quel giorno, di fatto, l’Italia perse i suoi possedimenti africani. Insieme agli inglesi era sbarcata anche – evidente frutto del sionismo - la Brigata ebraica Palestinese che aveva preso parte attiva nelle azioni di guerra al fianco dell’ottava armata britannica.

 

Già dalla fine della prima guerra mondiale, gli inglesi avevano ottenuto il mandato sulla Palestina e con la dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 avevano visto con favore la nascita di un «focolare nazionale» per il popolo ebraico. Con grande stupore per gli israeliti, una volta sbarcati a Tripoli, gli inglesi cambiarono radicalmente atteggiamento. In realtà, già da molti anni le autorità britanniche ricevevano pressioni da parte di maggiorenti arabi per il trattamento dei loro correligionari in Palestina. Nel 1937, ad esempio, gli ulema di Tripoli, tra cui il principe Suleiman Caramanli, inviarono una lettera aperta a Mussolini. Nella missiva, denunciavano il comportamento del governo inglese, che non perdeva occasione di «smembrare il corpo dell’Islam e spezzare i vincoli che uniscono i musulmani, riuscendo così a seminare tra di loro la discordia e a succhiare il loro sangue e ad impadronirsi dei loro averi. Preso di mira quel suolo» continuavano i notabili, «fu dato in feudo agli ebrei sionisti per sentimento di astio contro l’Islam e i musulmani». Questo accadeva nonostante «l’Inghilterra avesse assunto solenne impegno e data la sua parola d’onore di appoggiare la loro causa aiutandoli ad ottenere l’indipendenza». «Vi preghiamo» concludevano gli Ulema «di voler finalmente protestare a nome nostro contro l’Inghilterra dinanzi al mondo intero».

 

Forse il mantenimento di uno stato di disordine avrebbe dimostrato alla comunità internazionale l’immaturità della Libia per l’indipendenza e dunque reso necessario il mantenimento di un dominio inglese. Sta di fatto che i britannici a Tripoli furono più filo-arabi che non filo-ebraici. Durante la dominazione italiana, nonostante le ingiustizie e le numerose difficoltà, l’economia di Tripoli e della Libia crebbe grazie a nuove infrastrutture e a rigogliosi commerci. Negli anni successivi allo sbarco inglese tuttavia, la condizione economica di Tripoli peggiorò decisamente. Allora gli occhi di molti cominciarono a puntare, sospetti, verso gli affari degli ebrei, gli unici che guardavano speranzosi al futuro, anche per il rinvigorito impulso sionista.

 

In un clima di questo tipo, nel pomeriggio di domenica 4 novembre 1945, improvvisamente la situazione degli ebrei precipitò. Tra ebrei e musulmani era in corso una partita di calcio in un quartiere di Tripoli adiacente al centro quando tutto degenerò in insulti, pugni e coltellate. Venne quindi preso d’assalto il locale di un ebreo che fu messo a soqquadro. Il giorno dopo altri locali furono assaliti e distrutti e le bande armate si moltiplicarono puntando verso la hara. In tre giorni di disordini rimasero feriti 265 ebrei, ne morirono 132, oltre a cinque arabi. Molti furono sgozzati nelle loro abitazioni. 336 magazzini e negozi furono saccheggiati e dati alle fiamme. Nove sinagoghe vennero profanate e incendiate. Per salvarsi molti dovettero convertirsi all’Islam.

 

I disordini si propagarono anche nelle città limitrofe di Homs, Zlitan, Misurata, Sirte e Zuara. A Tripoli il ghetto fu evacuato. Migliaia di ebrei rimasero senza casa. In seguito furono arrestati circa 600 arabi. Gli ebrei di Libia oggi concordano quasi unanimemente nel sostenere che gli inglesi «autorizzarono» quella mattanza. All’inizio dei disordini il presidente della comunità, Zachino Habib, con altri rappresentati si recò presso la polizia per parlare con il Capo della British military administration (Bma), Travers Robert Blackley, tuttavia senza riuscirvi. Il governatore si trovava infatti al Cairo, dove due giorni prima c’erano stati analoghi disordini. In ogni caso, Habib venne rassicurato: presto tutto sarebbe tornato alla normalità.

 

Di fatto, per tutti e tre i giorni del pogrom, non si vide per le strade della hara un solo poliziotto. Gli assalitori furono lasciati liberi di fare quello che volevano a tal punto che ebbero la libertà di contrassegnare le abitazioni con scritte del tipo: “arabo”, “italiano”, “ebreo”, per non sbagliare bersaglio. Il primo coprifuoco fu imposto solo alle 21 del 6 novembre, quando ormai, forse, non c’era più bisogno. Il pogrom del ’45 rappresentò uno spartiacque nella storia degli ebrei di Libia: da quel momento non si sentirono più sicuri di vivere nel paese che per millenni li aveva accolti.

 

Gli ebrei libici furono interessati solo marginalmente dalla Shoah ma in quel periodo vissero comunque in stato di angoscia e terrore. Si stima che in totale furono deportate 600 persone. La Bma non aveva ancora acconsentito, nonostante le pressanti richieste, alla ricostituzione dell’Organizzazione sionista che aveva funzionato anche in periodo fascista. Nacque così in seno alla comunità un gruppo di autodifesa, chiamato l’Haganà, che si proponeva di respingere con le armi eventuali nuovi assalti. Si componeva sostanzialmente di giovani sionisti. A partire da maggio del 1946, fu gestito da un tecnico venuto clandestinamente dalla Palestina detto «lo zio».

 

Ebrei ed arabi iniziarono a chiedere in tandem l’indipendenza del paese; entrambi erano scoraggiati dalle politiche dell’amministrazione inglese. Alle loro richieste si unirono anche quelle di un gruppo di italiani guidati dal notaio Cibelli. Essi avevano costituito l’Associazione politica per il progresso della Libia, un movimento vicino ai lavoratori con circa duemila iscritti, di cui facevano parte anche personaggi divenuti poi noti nel nostro paese come lo scultore Nino Caruso e il giornalista Valentino Parlato.

 

Il 29 novembre 1947, l’Onu optò per la nascita in Palestina di due Stati separati, uno per gli arabi e l’altro per gli ebrei. Due settimane dopo al Cairo cominciarono i disordini: il mondo arabo musulmano non aveva accolto con favore unanime quella decisione e di lì a poco sarebbe scoppiato il primo conflitto arabo-israeliano. I tumulti giunsero presto anche a Tripoli dove, nelle giornate del 12 e 13 giugno del 1948, esattamente un mese dopo la proclamazione della nascita dello Stato d’Israele, 14 maggio 1948, ebbe luogo il secondo pogrom.

 

Ai gruppi di arabi armati si aggiunsero molti tunisini in transito verso l’Egitto. Lì si sarebbero uniti all’esercito per combattere in Palestina. Partendo da quartieri degradati, come Bab el Horria e Sidi Omran, puntarono verso le hara. Questa volta però gli ebrei si fecero trovare pronti: il movimento dell’Haganà aveva raccolto attorno a sé molti giovani, ragazze e persino bambini, che si difesero con mezzi di fortuna come bastoni, sassi e molotov. Gli arabi ritirarono per contrattaccare dove la resistenza era meno organizzata. Non mancarono saccheggi, incendi e violenze di ogni sorta. I danni maggiori si registrarono nei pressi di via Dante. Una sinagoga già distrutta nel 1945 fu di nuovo saccheggiata. Gli inglesi stavolta intervennero più prontamente, anche con le armi. Ci furono meno vittime. Stando alle fonti inglesi, morirono 13 ebrei e 3 arabi. Le fonti israelite contarono invece 14 morti tra i loro correligionari e ben 30 tra gli arabi.

 

Due giorni dopo il pogrom, il 14 giugno, una rappresentanza di 42 ebrei inviò ai sostituti dei ministeri degli esteri delle quattro grandi potenze che si occupavano del futuro delle ex colonie italiane un memorandum con cui, denunciate le violenze arabe, chiedevano il «ritorno dell’amministrazione italiana saggia e ferma» oppure «navi e mezzi per emigrare in massa». Il 18 novembre in una lettera aperta alla Nazioni Unite, un gruppo di rappresentanti della comunità si esprimeva così: «Liberateci! Liberateci! Liberateci!». «Stiamo peggio che in un campo di concentramento». I poveri e la classe media desideravano emigrare. Gli inglesi non ne volevano sentir parlare. Portavano avanti la loro politica restrittiva verso i flussi di emigrazione in Palestina secondo le regole previste nel Libro bianco del ’22. Si stima che tra il ’48 e il ’49, circa 2.500 ebrei libici cercarono di raggiungere clandestinamente Israele, la Francia o l’Italia. Molti di questi, con la complicità dei pescatori, sfidarono il Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna. Un certo numero venne arrestato e rimpatriato.

 

Finalmente, il 2 febbraio 1949, dopo tante pressioni anche da parte della comunità internazionale, le autorità inglesi autorizzarono ufficialmente chiunque ne avesse fatto richiesta a lasciare il paese. Furono presentate 8 mila richieste di passaporto in un solo giorno. Sbarcarono a Tripoli il responsabile del dipartimento per l’Aliyah, Izhak Reffael, e un alto rappresentante del World jewish congress. Alla fine fu concordato che l’immigrazione in Israele sarebbe stata «illimitata» e le prime partenze ebbero luogo il 5 aprile 1949.

 

All’Onu, caduto un compromesso che prevedeva l’assegnazione fiduciaria della Cirenaica all’Inghilterra, della Tripolitania all’Italia e del Fezzan alla Francia, il 21 novembre del ’49 fu approvata una risoluzione che sanciva l’indipendenza della Libia al più tardi entro il primo gennaio del ’52. Se fino a quel momento ad aspirare alla partenza erano stati soprattutto i poveri, ora anche i ricchi cominciavano ad avanzare qualche domanda di espatrio temendo un possibile, imminente, impianto di un governo interamente arabo.

 

Molti tra gli arabi più colti intravidero nella partenza degli ebrei più facoltosi un grave danno per il funzionamento della futura Libia indipendente. Quando i poteri passarono dall’amministrazione inglese a quella libica di re Idriss al-Senussi, dei circa 36 mila ebrei che abitavano nel paese, ne erano rimasti appena 6 mila. In totale, in Israele erano emigrati direttamente, con quarantadue trasporti da Tripoli ad Haifa, o indirettamente, passando per l'Italia, 31.343 ebrei libici.

 

La Libia di re Idriss manteneva un profilo filo-occidentale, con forti legami con Usa, Gran Bretagna e Francia. Naturalmente, il comunismo era vietato. Gli italiani in quegli anni costituivano uno degli elementi più progrediti e dinamici. Gli ebrei di sovente furono accusati di complottare con forze straniere. Nel luglio del 1952 Gamal abd el-Nasser prese il poter in Egitto. Il 28 marzo del ’53 allineandosi con i membri più moderati, la Libia entrò a far parte della Lega araba. Nel ’54, l’addetto culturale egiziano fu espulso dal suolo libico per aver distribuito materiale ritenuto «sovversivo». Durante la crisi di Suez del ’56, Nasser accusò re Idriss di aver permesso agli inglesi di usare contro l’Egitto le basi cirenaiche.Nel ’61 furono arrestati in Libia 87 attivisti di un gruppo clandestino filo-egiziano del partito baathista con l’accusa di «associazione comunista» e furono condannati a scontare pene diverse.

 

Nel gennaio del ’64, re Idriss non intervenne al summit dei capi di Stato arabi al Cairo (il primo summit della Lega Araba), un gesto che molti consideraroni  di ostilità nei confronti di Nasser. In Libia, si assisteva da anni a un martellamento mediatico quotidiano di trasmissioni radiofoniche della propaganda nasseriana. Uno di quegli apparecchi era attaccato all’orecchio del ventenne Muammar Gheddafi.

 

L’opinione pubblica degli arabi si consolidò progressivamente su posizioni filo-nasseriane e anti-israeliane. Un grande ruolo in tal senso lo giocarono quotidiani locali di corrente nazionalista quali l’al-Libi, che riteneva la presenza degli ebrei in Libia «grandemente pericolosa» per la causa comune degli arabi. In un articolo del giugno 1961, il "Tripoli mirror", un giornale filogovernativo panarabo in lingua inglese chiedeva agli ebrei come mai non protestassero contro la presenza di nazisti nelle truppe francesi che combattevano in Algeria. Si prendevano le difese di un certo prof. Zind, a cui erano state mosse accuse di antisemitismo e razzismo, asserendo che, se davvero fosse stato razzista, oltre agli ebrei avrebbe odiato anche gli arabi, anch’essi semiti.

 

Il 21 marzo del 1961 il governo libico di re Idriss promulgò una legge che poneva sotto custodia governativa tutti i beni e le proprietà esistenti in Libia appartenute a persone ora residenti in Israele. L’olandese Adrian Pelt, già commissario Onu per la Libia a partire dal ’49, in un memorandum riservato del gennaio ’62, spiegava come nel Paese non ci fosse «antisemitismo», piuttosto «un anti israelismo che non si manifesta spontaneamente ma a freddo».

 

L’8 agosto del ’62 il Consiglio dei ministri emise un comunicato. In primo luogo si stabiliva che gli ebrei libici, non in possesso di altre cittadinanze, erano a tutti gli effetti cittadini libici; in secondo luogo - forse per compiacere il partito nazionalista - che, attraverso un decreto, chiunque avesse avuto «in qualsiasi tempo rapporti col sionismo», anche solo visitando Israele dopo la proclamazione dell’indipendenza libica, o avesse «in qualsiasi momento agito per il rafforzamento di Israele sia morale che materiale» era passibile di decadenza della cittadinanza libica.

 

Il quinquennio che seguì, dal ’62 al ’67, fu un periodo di relativa calma per quei pochi ebrei rimasti (molti tra i più facoltosi). Ebbero la possibilità di curare e incrementare i loro commerci, che già da tempo avevano cominciato a girare attorno all’industria petrolifera, presente nel paese a partire dalla fine degli anni Cinquanta, quando ebbe inizio l’estrazione di greggio dai primi pozzi della Cirenaica.

 

La situazione per gli ebrei precipitò nel giugno del 1967, quando già dal secondo giorno del mese alcuni sacerdoti musulmani cominciarono a proclamare la jihad tenendo sermoni alla radio.Questo accadeva in concomitanza con la Guerra dei sei giorni, che si combatté in Israele sul fronte nord nelle alture del Golan, e, soprattutto, sul fronte sud nella penisola del Sinai. Quello che a Tripoli restava della hara fu bersaglio di un nuovo pogrom. Morirono 17 ebrei, di cui 3 pugnalati. Una donna che - per non farsi riconoscere - si era recata al mercato avvolta in un barracano fu riconosciuta e uccisa sul posto. Due intere famiglie, quella di Shalom Unzon e di Emilia Baranes Habib, 13 persone in tutto, furono prelevate a Tripoli da un ufficiale libico con la scusa di esser portate in salvo in un campo di raccolta e, non appena fuori città, furono eliminate. Disordini e omicidi, seppure di minore intensità, si registrarono anche a Bengasi. Gran parte di quegli ebrei libici che avevano deciso di restare, dopo i fatti del giugno ’67 si convinsero a partire.

 

I più benestanti vennero scortati dalla polizia fino al porto o all’aeroporto, autorizzati a partire con una sola valigia, un visto di rientro e venti lire libiche. Molti altri furono radunati nel campo di Gurgi da cui, poco alla volta, defluirono. Entro settembre di quell’anno, circa 4.100 ebrei di Libia raggiunsero l’Italia. Roma rappresentò la loro principale base. Altre famiglie si distribuirono (in ordine di quantità) a Milano, Livorno, Firenze, Latina. L’Italia rappresenta il secondo nucleo più consistente di ebrei libici nel mondo. La maggior parte ha trovato sistemazione in Israele, dove all’inizio furono sistemati in campi di raccolta (come Beit-Lid, Tel Litvinski, Mahane Israel ecc...) per poi esser trasferiti in località limitrofe come Netanya.

 

In Italia vennero accolti non come “profughi”, status che avrebbero preferito per via di alcuni benefici che comportava, ma come “rifugiati” sotto l’egida dell’Alto commissario dell’Onu. In Libia, gli ebrei hanno lasciato beni per una somma totale che oggi si aggirerebbe intorno agli 1,6 miliardi di euro. Quando Gheddafi, con un colpo di Stato il primo settembre 1969 salì al potere, erano rimasti in Libia circa 200 ebrei. Tra i primi provvedimenti ci fu la confisca dei beni che gli ebrei avevano lasciato la Libia dopo il giugno del 1967 e la distruzione dei cimiteri ebraici. Al loro posto furono costruiti giardini e palazzi. Il principale cimitero di Tripoli fu spianato e utilizzato in parte per una strada e in parte per un deposito portuale. I resti dei cadaveri furono gettati in mare e non fu constentito spostarne le spoglie, a differenza di quel che accadde con gli italiani. Anche gli italiani (circa 20 mila), con due leggi del 21 luglio 1970, vennero espulsi dal paese furono confiscati loro tutti i beni. Gli ebrei libici in Italia cominciarono a organizzarsi e, mediante petizioni, a esercitare pressioni presso il nuovo governo per vedersi riconosciuti i diritti sulla propria persona e sulle proprietà. In tutta risposta, in una lettera datata maggio del 1970 si legge: «Noi non siamo razzisti né fra quelli che approvano il razzismo e potete tornare il Libia al più presto possibile. Allora cesserà la legge della custodia per chiunque ritorni nel Paese». Il firmatario era Raid Abdul Munham el Huni, uno dei membri del consiglio della rivoluzione che di lì a poco si sarebbe ritirato in un volontario esilio in Egitto per contrasti con Gheddafi.

 

Nel novembre del 1973, al Simposio di Parigi in occasione di un incontro intellettuale tra Oriente e Occidente, davanti a una platea di esponenti della cultura e della politica europea, il capo del governo si espresse così: «Decine di ebrei vivono ancora oggi nel mio paese e, se invalidi o anziani, sono assistiti dal governo libico. Potete constatarlo da voi nella stessa Tripoli. Abbiamo dato pensioni mensili per la loro vecchiaia e per le loro disagiate condizioni sociali». «Il giudaismo» continuava «è responsabile di qualsiasi oppressione che può essere inflitta al popolo ebraico». Se in alcuni paesi arabi essi sono stati oppressi, concludeva, «devono aver commesso in Palestina contro gli arabi qualche cosa che ha causato una reazione loro avversa». Rispetto alla Palestina, come scriveva in un messaggio del ’79 al presidente Jimmy Carter, Gheddafi suggeriva «il ritorno dei coloni nei loro paesi d’origine» e «la creazione di uno Stato palestinese democratico composto da palestinesi arabi ed ebrei palestinesi».

 

Secondo quanto dichiarato il 1 marzo 2011 da una donna ebrea di Netanya, Gita Boaron, alla televisione israeliana Israel national news tv, Gheddafi stesso avrebbe avuto origini ebraiche e sarebbe stato suo cugino. «La nonna di Gheddafi», ha affermato la donna «è la sorella di mia nonna». «Dopo essersi sposata con un ebreo di Beersheba, si era unita con uno sheikh locale convertendosi all’Islam e trasferendosi in Libia». Gheddafi - secondo la testimone - sarebbe ebreo «perché nato da una madre la cui madre era ebrea».

 

Nei decenni gli ebrei libici sia in Israele che in Italia hanno complessivamente accresciuto il proprio status culturale ed economico. In Israele, all’inizio, in molti si adattarono a fare lavori manuali soprattutto nell’edilizia divenendo poi piccoli imprenditori. Molti lavorarono nell’agricoltura arrivando a possedere e gestire aziende. Un ristretto gruppo infine è arrivato a ricoprire ruoli amministrativi in politica e nell’Arma. In Italia - dove rappresentano la componente più massiccia di quella che è la più antica comunità ebraica d’Europa - quasi tutti i figli dei rifugiati hanno preso una laurea o si sono ben inseriti nel mondo lavorativo.

 

Sono molti i nomi noti nell’imprenditoria, nella finanza, nel giornalismo, nelle scienze e nelle arti. Solo per citarne alcuni tra quelli scomparsi, ricordiamo il cantautore Herbert Pagani, il produttore Robert Haggiag, l’imprenditore Wichy Hassan. Oggi, in tutto il mondo, compresi i discendenti, si contano circa 200 mila ebrei di origine libica.

 

A più riprese, durante i mesi della rivoluzione in Libia del 2011, uno psicanalista ebreo libico, residente in Italia dal ’67 di nome David Gerbi, si è recato nel paese per fiancheggiare i rivoltosi apportando sostegno medico e morale. Le intenzioni di Gerbi erano quelle di ricucire i fili delle relazioni con il nascente governo transitorio. Ha inoltre provato, buttando giù il muro che ne ostruiva l’ingresso, a muovere i primi passi verso la ristrutturazione della sinagoga Dar Bishi, nel cuore di quello che era il ghetto. Solo grazie ad una scorta del servizio d’ordine locale, tuttavia, è riuscito ad evitare il linciaggio della folla inferocita per quel gesto.

 

Gerbi, forte di una lettera firmata da Meir Kachlon, capo dell’Organizzazione mondiale della comunità ebraica libica, che ha sede nel sobborgo Or Yehuda di Tel Aviv, è riuscito ad incontrare due volte l’ex presidente del Consiglio nazionale transitorio libico (Cnt) Mustafa Abdel Jalil, che gli avrebbe promesso un futuro incarico da «ministro» per le relazioni con la comunità israelita nel nascente governo. Kachlon, a differenza di alcuni rappresentanti della comunità di ebrei libici in Gran Bretagna e in Italia, come Raphael Luzon ed Elio Raccah - i quali avevano biasimato l’iniziativa di Gerbi bollandola come «individualista» - ha accolto positivamente il progetto del medico italiano, sostenendo che stava agendo in modo responsabile ed autorevole. «Come gli ebrei del Marocco che possono visitare il loro paese d’origine» ha recentemente dichiarato Kachlon al Jerusalem Post «anche noi vorremmo poter tornare e visitare le tombe dei nostri parenti».

 

Il dibattito è attualissimo anche presso la Knesset (il parlamento israeliano) dove qualche settimana fa si è tenuta un’udienza nella quale i rappresenti delle comunità ebraiche del mondo arabo sono state ascoltate da un apposito comitato che ha ritenendo «urgente» la «rapida documentazione delle loro storie» prima che gli Stati arabi «cancellino tutte le tracce della loro permanenza».