(Libia) Ascesa, caduta e rinascita dei fratelli di Libia (Reem Elbreki, Limes online, 21 febbraio 2013)

21.02.2013 16:29
Accolti da re Idris nella fuga da Nasser, braccati da Gheddafi, riabilitati da Sayf al-Islam con la benedizione di Londra e proiettati alla ribalta dalla primavera araba: oggi gli eredi di al-Banna sono nel governo di Tripoli. Ma con il popolo non c’è sintonia.



[Carta di Laura Canali tratta da Limes 1/13 "L'Egitto e i suoi Fratelli"]

"Voi non siete né fratelli, né musulmani": questa frase, pronunciata da Hasan al-Banna, fondatore dei Fratelli musulmani, rappresenta forse uno dei principali punti di svolta nella storia del movimento. Resosi conto che la situazione in Egitto stava cominciando a prendere una pericolosa piega, al-Banna ritenne di doversi sfilare da un’organizzazione che, a suo avviso, aveva deviato dalla retta via. L’idillio con la monarchia (nell’aprile 1936 i Fratelli accoglievano il convoglio del re Faruq in tutte le tappe che attraversava, dichiarandogli fedeltà) si interruppe quando apparve chiaro che la Fratellanza intendeva acquisire posizioni di comando, esercitando pressioni per la nomina di ministri ad essa vicini (in tal senso, forse il governo di Mustafa al-Nahas Pasha rappresenta un passo cruciale per la scalata al potere). Si passò quindi alla fase più violenta e sanguinosa della storia dei Fratelli musulmani, caratterizzata dalla nascita dell’omonima organizzazione segreta cui fu attribuita l’escalation di violenza di quel periodo.

 

Nel 1947 tale organizzazione cominciò a prendere di mira gli stranieri in Egitto e i loro alleati, tra cui re Faruq, colpendo negozi di ebrei e locali inglesi, fino a costringere questi ultimi a cercare il dialogo con al-Banna, in una serie di incontri segreti. Inoltre fece saltare in aria posti di polizia al centro del Cairo; in reazione a tutto ciò, l’apparato di sicurezza lanciò una campagna d’arresti. Il giudice Ahmad al-Haznadar pagò con la vita la colpa di aver pronunciato sentenze contro la Fratellanza. Lo stesso accade a fine dicembre 1948, quando il governatore militare del paese, al-Nuqrasi Pasha, pochi giorni dopo aver ordinato lo scioglimento del movimento, fu ucciso. Tali episodi e le pressioni esterne influenzarono negativamente Hasan al-Banna, che sentì di aver perso il controllo della sua creatura.

 

Guardando agli eventi paralleli dell’attività politica e militare dei Fratelli musulmani al Cairo, fu chiaro fin dall’inizio il loro obiettivo primario: ampliare lsfera d’azione e conquistare il potere. La loro attività non si limitò all’Egitto: sostennero i movimenti rivoluzionari del mondo arabo, avallarono l’uccisione del monarca yemenita Yahya Hamid, nell’aprile del 1948, inviando una loro delegazione per benedire i golpisti. Tutto ciò spinse il governo egiziano a intensificare il controllo poliziesco sul gruppo e a metterne al bando l’attività politica.

 

Per i Fratelli musulmani la Libia era un paese sconosciuto, economicamente povero e alle prese con i postumi dell’occupazione coloniale. Ai loro occhi, era preferibile fissare solide basi in Egitto e sviluppare cellule in Yemen, Giordania, Palestina e Siria. Tuttavia, il famoso episodio di al-Mansiyya (località di Alessandria in cui i Fratelli furono accusati del tentato assassinio di Nasser, nel 1954) rappresenta un punto di svolta nell’attività dell’organizzazione in Libia, che proprio in quell’anno otteneva l’indipendenza. Furono arrestati alcuni membri coinvolti nell’episodio, altri si diedero alla fuga; tra costoro figuravano tre insegnanti egiziani che giunsero nella città di Agdabiya, nell’Est della Libia. Lì, attraverso la loro attività didattica, vennero a contatto con i giovani del posto e giocarono un ruolo preminente nella formazione della prima cellula dei Fratelli in Libia. Il gruppo cominciò ad attirare l’élite sociale, professori universitari, studenti e imam. Costoro vedevano nell’adesione al gruppo un modo per darsi una formazione politica e intellettuale, partecipando a incontri e seminari che facilitavano la comunicazione con i professori universitari, in un’atmosfera più rilassata rispetto a quella delle aule.

 

Alla fine degli anni Cinquanta, l’attività dei Fratelli si era estesa sotto la leadership dei tre pionieri. Re Idris rifiutò la loro estradizione, per cui essi e i loro seguaci trovarono spazi per far propaganda nelle città della costa orientale. Però la società libica - essenzialmente conservatrice, regolata da tradizioni e consuetudini di un islam quotidianamente vissuto, mediato dalla figura di un monarca che aveva fondato il movimento senussita - fu irritata da quel tipo di propaganda, sicché il gruppo non godette di un vasto appoggio popolare. All’inizio degli anni Sessanta, il gruppo costituì un suo partito che nelle intenzioni doveva essere un omologo di quelli fondati nella regione, ma che nei fatti si scontrò con il divieto di svolgere attività politica. Successivamente, re Idris autorizzò tale attività, ma sotto stretta sorveglianza, concedendo al partito di partecipare alle elezioni, anche se l’opinione pubblica stentava ad abbracciare un movimento diviso tra obiettivi didattici e ambizioni politiche. Nonostante fosse abbastanza rappresentato in bar, scuole e università, non ebbe chance di successo nelle sedi istituzionali, specialmente in parlamento e fu fronteggiato dal re con saggezza.

 

Negli anni Settanta iniziò una nuova fase parallela al movimento degli Ufficiali unionisti, nota come Rivoluzione del primo settembre (tawrat al-fatih). Il regime del colonnello Gheddafi, che si considerava campione del nazionalismo e braccio del presidente Nasser nel Maghreb, fin da subito trattò con spietatezza la Fratellanza, alla stregua di quanto accaduto in Egitto, dove il movimento aveva subìto un brutale ridimensionamento. A restringere ulteriormente i margini diazione politica dell’organizzazione intervennero forze ad essa ostili, con enorme soddisfazione del Colonnello: il partito Bath, attivo a Bengasi e Tripoli e il movimento comunista, forte nelle città di al-Bayda' e Cirene. Alla fine del decennio, con la nascita dei Comitati rivoluzionari, la Fratellanza in Libia era agonizzante, a causa di arresti, esecuzioni capitali ed esili.

 

Gli anni Ottanta furono il periodo di maggior debolezza di tutta la storia del movimento in Libia: a parte l’arresto di suoi leader nelle grosse città, si assistette alla nascita di altri movimenti islamici concorrenti e ancora più oltranzisti, che ebbero tuttavia l’effetto di sviare per un po' l’attenzione del regime. In quegli anni emerse il cosiddetto Gruppo libico combattente, organizzazione armata che veicolava le idee del salafismo jihadista, fondata da un gruppo di giovani libici che avevano partecipato alla guerra tra Afghanistan e Urss. Esso fu una spina nel fianco del regime del Colonnello, specialmente perché negli anni Ottanta la propaganda in Arabia Saudita era jihadista e concomitante con quella antisovietica in Cecenia: la maggior parte dei giovani vedeva nella fatwa con cui lo sayh al-Albani scomunicava Gheddafi una grossa occasione per l’azione politica e per l’espansione del Gruppo islamico combattente.

 

La pericolosità della formazione stava in due elementi: primo, riusciva ad attirare vaste platee di giovani che vedevano nella lotta armata il miglior strumento per abbattere il regime di Gheddafi, in cui si cominciavano già ad avvertire, oltre al peso di un asfissiante controllo poliziesco, i prodromi di una certa corruzione amministrativa, nonostante fosse ancora garantita una condizione di vita accettabile; secondo, effettuava operazioni armate in diversi siti civili e militari per abbattere il regime, che reagiva duramente con l’impiccagione nelle pubbliche piazze e nelle università di vari esponenti, tra cui i nove fondatori e svariati membri della Fratellanza.

 

Negli anni Novanta Gheddafi esercitò un’inusitata tirannia per vanificare qualsiasi tentativo di destabilizzazione. La sua ira si indirizzò persino contro chi pregava all’alba nelle moschee. Il cittadino libico iniziò a temere la propria ombra e a diffidare di chiunque. Non sussistevano dunque le condizioni ottimali per una ripresa delle attività della Fratellanza. In precedenza, durante la fase dello scontro duro con il regime, questa aveva dato prova della sua forza, avvalendosi di una fitta rete di relazioni all’interno del paese e all’estero, con cellule clandestine presenti in quasi tutte le città. Tutto ciò urtò l’orgoglio di Gheddafi, che adottò la teoria del complotto esterno per rovesciare il suo regime, insinuando la presenza di un legame tra il gruppo, le organizzazioni massoniche e i servizi segreti internazionali. Il Colonnello riteneva di avere il popolo dalla sua parte in quello scontro, ma la popolazione appoggiava i Fratelli: a Bengasi, ad esempio, esponenti della Fratellanza ricercati trovavano accoglienza per ore o giorni presso le abitazioni private. Iniziò così una guerra di strada, del tutto sconosciuta ai mass media internazionali, con gli incroci presidiati da carri armati.

 

Malgrado i numerosi arresti e le esecuzioni inscenate dal regime per sradicare l’opposizione, in quel periodo il Gruppo combattente si rinvigorì col ritorno della maggior parte dei giovani dall’Afghanistan. Nacque anche il Movimento salafita di centro. Il Colonnello si sentì accerchiato da tre fazioni interne al paese e dall’opposizione in esilio; temendo che si coalizzassero contro di lui, cominciò una politica di rafforzamento dei poli estremi. Così, alla fine degli anni Novanta la Libia vide proliferare confraternite sufi e movimenti salafiti, appoggiati da Gheddafi contro la Fratellanza. Per evitare che l’ideologia di quest’ultima dominasse nelle moschee e sfruttando il pessimo rapporto tra Fratelli e salafiti, il Colonnello consegnò a questi ultimi le chiavi delle moschee dell’Associazione della propaganda islamica in tutto il mondo. Le divergenze ideologiche tra Fratelli musulmani, Gruppo libico combattente e salafiti impedirono loro di coalizzarsi per abbattere il regime, ma la loro attività clandestina non cessò.

 

Il XXI secolo segna l’inizio del tramonto del regime di polizia di Gheddafi. L’episodio di Lockerbie del 1988 inaugurò una stagione difficile per il popolo libico, a causa dell’embargo totale. Il tenore di vita si abbassò e il popolo abbracciò l’opposizione, costringendo il regime a intavolare timide trattative con l’Occidente: quello stesso Occidente contro cui il Colonnello aveva lanciato slogan e discorsi sprezzanti. Un regime che aveva sostenuto i movimenti di liberazione antistatunitensi cominciava così a proiettare un’immagine contraddittoria: i nemici di ieri diventavano gli amici di oggi. Delegazioni occidentali arrivavano nella tenda di Sirte e Gheddafi girava le capitali europee per spezzare l’embargo, giocando la carta dei bambini infettati dall’Aids per premere sull’Europa. Ma il regime restava inviso al suo popolo, che non intravedeva nessun barlume di speranza.

 

Intanto i figli di Gheddafi crescevano, ognuno coltivando le proprie passioni: Hannibal partiva per la Svizzera, Sa‘di si appassionava al calcio italiano, Sayf al-Islam, il più vicino all’eredità paterna, andava in Gran Bretagna. Proprio dal Regno Unito venne la pressione maggiore: Sayf, che frequentava l’élite inglese, non vedeva un futuro per il regime paterno e cominciava a cercare soluzioni per presentarsi al popolo come il Mahdi, il riformatore messianico. Sullo sfondo, la crisi economica mondiale, con America ed Europa all’affannosa ricerca di escamotage per rimpatriare i dirigenti della Fratellanza fuggiti trent’anni prima chiedendo asilo. Di fronte alle continue richieste di dar loro una chance di governo, l’Occidente desiderava fortemente un rinnovamento di tale compagine.

 

L’insieme di questi fattori esercitava una forte pressione su Sayf al-Islam, cui Londra propose una soluzione: sdoganare la Fratellanza agli occhi del padre, che ormai aveva delegato la gestione del paese al genero ‘Abdallah al-Sanusi. Sayf si mise così al lavoro per mettere il gruppo in buona luce di fronte al padre: nel 2005, i Fratelli avevano invitato le forze dell’opposizione libica a una conferenza, da svolgersi a Londra, per chiedere unanimemente le dimissioni di Gheddafi e l’instaurazione di un regime costituzionale. Ma a sorpresa, il giorno stesso dell’apertura dei lavori inviarono una lettera a Gheddafi per informarlo di essersi ritirati dalla coalizione, le cui richieste erano giudicate eccessive. Così Sayf al-Islam e i Fratelli, con la benedizione degli inglesi, riuscirono a far credere a Gheddafi che l’organizzazione si fosse attestata su posizioni riformiste, abbandonando i propositi golpisti. Nel 2009, sotto gli auspici di Washington, si celebrò la cosiddetta «riconciliazione e revisione»: per la prima volta lo Stato libico (rappresentato da Sayf al-Islam), la Fratellanza (rappresentata da ‘Ali al-Sallabi) e i gruppi combattenti (rappresentati da un ex detenuto in Gran Bretagna, ‘Abd al-Hakim Bilhag) si sedettero intorno a un tavolo, con l’obiettivo di riformare la Libia.

 

Il piano che dava a Sayf la presidenza, alla Fratellanza le istituzioni di governo e ai gruppi combattenti gli apparati di sicurezza piaceva a un popolo che aveva già deciso di andare allo scontro con il regime. Ma la primavera araba sovvertì gli schemi e accelerò il cambiamento, senza tuttavia produrre gli esiti sperati: la Fratellanza rimase a guardare nelle prime ore della rivoluzione, quando i giovani di Bengasi ebbero la meglio sul dispositivo di sicurezza della città, annunciando la fine di Gheddafi e denunciando i crimini di Sayf e di suo padre. Solo con la fine effettiva del regime i Fratelli hanno iniziato a instaurare un contatto diretto col popolo, ma la miscela di propaganda religiosa e politica in una società islamica e i ripetuti appelli all’islamizzazione della società hanno complicato loro le cose. Un altro fattore negativo, quasi consustanziale al movimento, è stato l’aver puntato sull’élite della società, mostrando un atteggiamento di superiorità che rende poco credibili le prese di posizione a difesa degli oppressi. Ma forse l’ostacolo maggiore è costituito dalla struttura sociale libica, il cui carattere tribale appare sotto vari aspetti poco adatto a un progetto politico di riforma radicale.

 

L’ingresso nella vita politica, senza però rinunciare al ruolo principale per cui il movimento è stato creato, cioè la propaganda religiosa; l’emergere di forti correnti liberali, che attirano i giovani grazie a discorsi di apertura; la recente alleanza con il Gruppo islamico combattente; l’incapacità di trovare soluzioni praticabili e non teoriche ai problemi reali della società: tali fattori hanno contribuito all’allontanamento dei giovani dalla Fratellanza. Nell’inedito clima di libertà in cui per la prima volta si trova ad operare, la sfida maggiore per il movimento consiste nel mostrarsi capace di governare la Libia, specie dopo aver a lungo esercitato pressioni a livello internazionale per ottenere tale opportunità.

 

Nel novembre 2011, la mattina stessa della sua nomina a responsabile generale dei Fratelli musulmani in Libia, ho incontrato Basir al-Kabti. Egli confida di proseguire nel solco tracciato da Egitto e Tunisia. Il piano d’azione della Fratellanza nel mondo arabo è chiaro: non entrerà nell’arena politica, a suo dire, ma sosterrà qualsiasi partito di orientamento religioso. Al-Kabti, che ha vissuto in America come rifugiato politico per più di trent’anni, sottolinea che la Fratellanza di Libia non dipende dalla Guida suprema in Egitto, ma al contempo si dice convinto che essa trarrà vantaggio da un coordinamento con gli altri movimenti islamici. Il fatto stesso che la Fratellanza sia stata fondata negli anni Quaranta da giovani formatisi in Egitto conferma secondo lui l’esistenza di un rapporto storico, o almeno di una certa fedeltà alla «casa madre».

 

Al-Kabti insiste sul fatto che la prospettiva del suo movimento è basata su programmi politici, non su ideologie. Ciò mi è stato ribadito da Muhammad Sawwan, presidente del partito Giustizia e costruzione, in un colloquio dello scorso novembre, a un anno esatto dall’intervista ad al-Kabti. In quell’arco di tempo è stato fondato il suddetto partito e Sawwan, appartenente ai Fratelli, ne è stato eletto presidente. È singolare che Giustizia e costruzione continui a negare la sua dipendenza dalla Fratellanza, sebbene più della metà dei suoi membri fondatori provengano dall’organizzazione e questa non lesini il suo sostegno politico. 

 

L’attuale governo conta peraltro sei ministri di Giustizia e costruzione, per lo più provenienti dalla Fratellanza. Questa pertanto si configura oggi, a tutti gli effetti, come un attore politico di rilievo nella Libia post-Gheddafi.