(Liberia) Ladri di terre, con l'aiuto delle banche europee (Misna)
“Le piantagioni di palma da olio si mangiano le terre che consentono ai contadini di sopravvivere” dice alla MISNA Silas Kpanan’Ayoung Siakor, coordinatore dell’Istituto della Liberia per lo sviluppo sostenibile. L’ultima battaglia è su una concessione da 310.000 ettari, secondo molti accordata in modo illegale.
Il contratto è stato firmato dal governo di Monrovia e dalla società malese Sime Darby il 23 luglio 2009. Prevede il trasferimento della terra nella piena disponibilità degli affittuari senza che ai proprietari sia garantito alcun risarcimento. “I contadini sono privati dei loro mezzi di sostentamento – denuncia Siakor – e possono solo ‘sperare’ di essere assunti come braccianti”. Sime Darby è un colosso che da solo vale il 6% della produzione mondiale di olio di palma. Il contratto prevede l’affitto per 63 anni di un’ampia fetta di terre nelle contee di Gbarpolu e di Grand Cape Mount, nella Liberia nord-occidentale. Il costo non supera i cinque dollaro l’ettaro.
Secondo l’Istituto per lo sviluppo sostenibile, il primo punto controverso è la durata del periodo di affitto, superiore al limite di 50 anni fissato per legge. Ma c’è di più. Secondo Siakor, “la concessione è illegale perché è stata assegnata senza che fosse prima elaborato uno studio di fattibilità e di impatto ambientale e senza che si svolgesse una gara pubblica”. Appunti, questi, mossi anche da una società inglese incaricata dal governo di valutare i profili giuridici dell’accordo. Ma le ruspe vanno avanti. “Per ora non ci sono stati incidenti – dice il coordinatore dell’Istituto per lo sviluppo sostenibile – ma la tensione è alta; la gente non si fida delle vie legali e sta cercando di convincere i rappresentanti di Sime Darby a trattare”. A novembre i contadini delle comunità interessate dalla concessione hanno pubblicato una lettera aperta nella quale riaffermavano il loro diritto alla terra e denunciavano di non essere stati consultati in alcun modo da Sime Darby.
La loro lotta è complicata dal fatto che la società malese ha anche il sostegno finanziario dell’Europa. Banche, fondi pensione e fondi di private equity detengono in Sime Darby quote che si aggirano attorno ai 280 milioni di euro. Di recente, poi, hanno anche facilitato l’emissione di obbligazioni facenti capo alla società malese per 250 milioni. A muoversi sono stati tra gli altri i fondi pensione dei governi di Olanda e Norvegia, i tedeschi di Deutsche Bank e gli inglesi di Hsbc e Standard Charter. Secondo gli attivisti dell’organizzazione non governativa Re:Common, della partita sono anche gli italiani di Banca Intesa, che avrebbero in portafoglio una partecipazione di oltre dieci milioni di euro.
Di certo, in gioco non ci sono solo i diritti dei contadini ma anche la tutela dell’ambiente. Secondo uno studio dell’università inglese di Reading, le piantagioni cancelleranno decine di migliaia di ettari di foresta dell’Alta Guinea, una zona incontaminata dove vivono specie di uccelli in via di estinzione. Un’altra conseguenza, nel medio periodo, è ancora di carattere sociale. “La perdita dei mezzi di sostentamento da parte dei contadini – scrivono gli esperti inglesi – rischia di favorire flussi migratori dalle campagne verso le città”. Realtà dove, dieci dopo la fine di una lunga guerra civile, la lotta per il lavoro e la sopravvivenza è già difficile.