Iraq: lo stato incompiuto e la deriva comunitaria (Eleonora Ardemagni, Equilibri, 3 marzo 2013)

04.03.2013 14:12

Mentre gli equilibri di potenza del sistema mediorientale si ridefiniscono con inusuale rapidità, l’Iraq somiglia ormai a un agglomerato di comunità in conflitto. E il fallimento dell’idea e dei significati di nazione viene ancora prima di quello del processo di institution-building. L’Iraq sembra pagare oggi la propria costruzione artificiale originaria: le proteste anti-governative dei sunniti, gli attacchi terroristici contro gli sciiti, le spinte autonomiste dei curdi stanno logorando le istituzioni statuali, la cui credibilità è già indebolita dal fenomeno della corruzione dilagante. Esasperando le tensioni settarie ed etniche, il governo a maggioranza sciita e filo-iraniano guidato da Nouri al-Maliki sta invelenendo il clima sociale: ciò rischia di risucchiare l’Iraq in un’ulteriore spirale di violenza. Restituendo slancio alla campagna di reclutamento dei gruppi terroristici, anche qaedisti, proprio ora che -al di là del confine- il jihadismo sta trovando spazio nella Siria lacerata dalla guerra civile. Forse, non è un caso che le manifestazioni contro l’esecutivo di al-Maliki siano partite dalla provincia centro-occidentale di al-Anbar, la prima che si sollevò contro al-Qa‘eda –grazie a una mobilitazione tribale- iniziata nel 2005. Analizzare l’attuale crisi irachena attraverso la sola lente del settarismo potrebbe dunque essere fuorviante: infatti, le diversità confessionali si legano –nel gioco delle appartenenze multiple- al tradizionale conflitto fra centro e periferia per l’accesso alle risorse. Baghdad e l’oligarchia degli sciiti al potere, il governo regionale del Kurdistan che tratta in prima persona la vendita del suo petrolio, la marginalizzazione politica e sociale delle aree sunnite: l’Iraq che attende le elezioni provinciali di aprile ha molti volti.

Le proteste anti-governative e la marginalizzazione dei sunniti

La comunità sunnita irachena ha ripreso a manifestare contro il governo centrale dallo scorso mese di dicembre. A rialzare la tensione politica sono stati due episodi controversi: la sentenza di condanna a morte –in contumacia- per il vicepresidente sunnita Tarek al-Hachemi, accusato di terrorismo e il recente arresto di alcune guardie del corpo del ministro delle finanze Rafi al-Issawi, anch’egli un sunnita, originario della città di Falluja.

I manifestanti anti-governativi lamentano l’uso strumentale della legge sul terrorismo, che l’esecutivo sciita starebbe adoperando -contro i sunniti- per concentrare il potere e reprimere il dissenso interno: secondo il discusso testo, le autorità possono detenere e perseguire i sospettati di terrorismo anche sulla base di carte segrete. È il caso del vicepresidente al-Hachemi, segretario del Partito islamico iracheno (vicino alla Fratellanza musulmana), riparatosi in Turchia, accusato di aver organizzato milizie personali: le prove della sua presunta colpevolezza non sono finora state rese pubbliche.

Nel corso delle proteste, i sunniti hanno domandato proprio la liberazione di molti militanti politici e di attivisti di organizzazioni della società civile (fra cui numerose donne, forse un migliaio) detenuti con l’accusa di terrorismo; un capo d’imputazione che non permette, inoltre, di poter ricevere visite in carcere. Lo scorso dicembre, i manifestanti sunniti hanno bloccato la rete stradale che collega Baghdad alle vicine Siria e Giordania. Dall’inizio dell’anno, le forze di sicurezza irachene hanno risposto con l’uso della forza alle proteste pacifiche, reprimendo i cortei.

Per provare a comprendere ciò che sta accadendo a livello sociale, è utile guardare oltre le prime file delle manifestazioni, occupate –come da tradizione- da capi tribali e religiosi; il corpo della protesta è costituito soprattutto da cittadini sunniti di giovane età, che espongono -è l’apparente paradosso di un paese segnato dalla lotta settaria- la sola bandiera dell’Iraq e non vessilli di parte, che vietano la piazza ai politici eletti, considerati i primi responsabili della condizione di ingiustizia sociale interna. E il movimento di protesta anti-governativo ha finora rivendicato la propria volontà di dimostrare in maniera pacifica, ponendosi in discontinuità con le violenze che ancora infiammano le principali città del paese. A surriscaldarsi è soprattutto il fianco centro-occidentale dell’Iraq, tra le province di al-Anbar, Niniveh e Salah al-Din; ma anche nella città settentrionale di Mosul -a prevalenza sunnita- le dimostrazioni si sono intensificate.

Il vasto governatorato di al-Anbar, che racchiude le città di Ramadi e di Falluja, è lo stesso dal quale si levò la sahwa tribale che, dalla fine del 2005, allontanò i gruppi qaedisti dal territorio, spezzando così un’alleanza solo strumentale, non sostenuta da ragioni ideologiche. Infatti, se il ‘gioco di sponda` con i gruppi affiliati o ispirati ad al-Qa‘eda aveva consentito alle tribù sunnite di aumentare la pressione sul nuovo governo centrale, la perdita del controllo sulle attività commerciali -anche illecite- nonché sulle risorse locali, aveva spinto i clan tribali a sollevarsi contro le cellule terroristiche, divenute ormai dirette competitor sul territorio. La mobilitazione delle tribù fu decisiva nell’esito del surge statunitense, poiché il tentativo di coinvolgere i sunniti nella vita pubblica fornì la ‘chiave di volta` politica che permise di instradare l’Iraq lungo l’impervia via della stabilizzazione.

Le aspettative della comunità sunnita sono state però disattese: il governo presieduto da Nouri al-Maliki ha progressivamente emarginato i sunniti dalla gestione del potere: essi non sono stati neppure incorporati nell’apparato pubblico. In più, molti di coloro che avevano guidato la sahwa anti-qaedista sono stati arbitrariamente perseguiti e arrestati. Con lo strumento della legge anti-terrorismo oppure con l’accusa -sempre efficace- di essere baathisti. Il rischio che segmenti del mondo sunnita iracheno percorrano il percorso inverso a quello del 2005 -tornando a ingrossare le fila del terrorismo- è dunque alto, soprattutto fra i giovani disoccupati delle province centro-occidentali del paese. Magari gli stessi che oggi sfilano pacificamente per rivendicare il loro posto nell’Iraq post-Saddam.

La frattura intra-sciita, l’Iran e gli attacchi alla comunità

Il riemergere della violenza jihadista in Iraq ha due bersagli: le forze di sicurezza -ovvero il simbolo di quelle istituzioni dalle quali i sunniti si sentono esclusi- e la comunità sciita, che oggi esprime la maggioranza di governo. Nelle ultime settimane, gli attentati terroristici contro gli sciiti sono tornati a insanguinare con regolarità il paese; solo in una giornata, il 16 gennaio scorso, un attacco ha causato quarantanove vittime sciite a Kirkuk, città settentrionale già contesa fra il governo centrale e la regione autonoma del Kurdistan.

E proprio qui, dove la disputa sull’amministrazione dei campi petroliferi è ancora viva,  lo schema sunniti contro sciiti –seppur fondamentale- mostra i suoi limiti interpretativi: a Kirkuk, alcuni gruppi sunniti sostengono infatti il governo sciita di Baghdad, in chiave anti-curda.  La contrapposizione settaria fra sciiti e sunniti non è quindi monolitica: all’interno di questo conflitto –riacutizzatosi dopo l’invasione anglo-americana del 2003- si sviluppa, per esempio, l’eterna rivalità fra Baghdad e gli sciiti iracheni del sud, che abitano le regioni più ricche di petrolio dell’Iraq e perciò chiedono una marcata evoluzione in senso federale dello stato. E non è dunque un caso che il noto religioso sciita Moqtada al-Sadr, a capo della milizia Mahdi Army -attiva nella provincia meridionale di Bassora- abbia invece solidarizzato con i manifestanti sunniti, schierandosi apertamente contro il premier al-Maliki, accusato di fomentare l’odio fra iracheni.

Il religioso sciita al-Sadr -forse in vista delle elezioni provinciali attese per aprile- punta a marcare la propria diversità dall’attuale governo centrale: da un luogo simbolico come Najaf (una delle due città sante sciite del paese), al-Sadr ha invitato il potere centrale a non sottovalutare che, sono le sue parole, “The Iraqi spring is coming” e si è rivolto a tutti gli iracheni -non solo agli sciiti- sottolineando che il parlamento ha il dovere di  stare accanto ai cittadini che protestano. Perché il governo iracheno, incapace di dare risposte credibili contro la corruzione interna alle istituzioni ma assai impegnato a strumentalizzare i contrasti inter-confessionali a fini politici, si sta alienando il consenso di parte del mondo sciita.

L’ayatollah Ali al-Sistani, voce molto rispettata dello sciismo, ha abbandonato il tradizionale atteggiamento quietista per denunciare la gravità dell’attuale postura istituzionale dell’Iraq che -con il suo approccio divisivo- rischia di portare lo scontro settario a un punto di non ritorno. Forse, la preoccupazione del clero sciita è in parte aumentata dalla crescente influenza che Teheran esercita sull’esecutivo al-Maliki: gran parte dell’attuale élite politica sciita dell’Iraq ha forti legami storici con l’Iran, dove molti personaggi oggi al potere -tra cui il premier- trascorsero gli anni dell’esilio, durante la dittatura di Saddam Hussein. Chi oggi governa l’Iraq -grazie all’appoggio decisivo degli Stati Uniti- pare aver perso il contatto con la società e le sue necessità, proprio perché non ha condiviso con il resto della comunità sciita gli anni della resistenza anti-regime, ma ne ha seguito l’evoluzione da lontano. L’aumento della violenza dentro l’Iraq coinvolge anche gruppi esterni: per esempio, il braccio locale dell’Hezbollah libanese ha annunciato la creazione di una milizia volta a combattere le organizzazioni sunnite che attaccano gli sciiti iracheni.

Proprio la filiale degli Hezbollah ha rivendicato, nel mese di febbraio, il lancio di granate contro un campo di rifugiati iraniani -nonché oppositori politici della Repubblica Islamica- in Iraq. L’atto terroristico contro i membri dei Mujaheddin Khalq (M.E.K., gruppo da poco uscito dalla lista nera del terrorismo di Washington), ospitati in una struttura nei pressi dell’aeroporto di Baghdad, ha causato sei morti e una cinquantina di feriti. Di recente, i muri di protezione attorno al campo dei rifugiati iraniani erano stati rimossi: i Mujaheddin Khalq denunciano le forze di sicurezza irachene di complicità con le autorità di Teheran, sospettate di essere le menti dell’attacco. D’altronde, il coinvolgimento degli sciiti iracheni nella storia politica iraniana si può rintracciare già nel 1906 quando, ad animare la rivoluzione costituzionale durante la monarchia dei Qajar, vi fu anche una folta componente irachena. Nel corso del conflitto fra Baghdad e Teheran, combattuto fra il 1980 e il 1988, Saddam Hussein additò –strumentalizzandola per fini politici- la presenza sciita nel paese, accusandola di sostenere, dall’interno, il nemico iraniano.

Al-Maliki e la costruzione monopolista del potere

Cresce l’attesa per la grande manifestazione anti-governativa che parte della comunità sunnita sta organizzando nella capitale per il mese di marzo. Nonostante l’esecutivo voglia vietare l’assemblea,  delegazioni provenienti da molte aree del paese (come le province centrali di Diyala, Wasit, Karbala e quella meridionale di Bassora) si sono già riunite nella provincia-guida di al-Anbar, al fine di coordinare l’evento.

La prova di forza dei sunniti  -che dovrebbe avvenire nei pressi della moschea Abu Hanifa di Azamiya- coincide con un momento di forte impasse istituzionale. Per esempio, la fondamentale legge sul petrolio -chiamata a regolare i diritti di sfruttamento dei campi di idrocarburi- non è ancora stata approvata, bloccata dai veti politici tra le parti. Uno stop che ingarbuglia i regolamenti legislativi interni e lascia così spazio alle iniziative autonome della regione curda; e proprio l’indefinitezza del quadro politico-normativo rischia di ammaccare l’attrattività finanziaria del secondo produttore giornaliero di barili di petrolio al mondo.

La concentrazione dei poteri nelle mani del premier al-Maliki -che è al momento ministro della Difesa e capo delle Forze Armate, oltre a svolgere le funzioni di ministro dell’Interno e di capo dell’intelligence- sta contribuendo a indebolire il governo iracheno, alienandogli il consenso interno, anche da parte del suo stesso gruppo confessionale. E isolandolo a livello internazionale, dove l’Iraq appare sempre più schiacciato sull’asse con Teheran, in contrapposizione alle monarchie sunnite del Golfo, preoccupate dai riverberi domestici della crescita di un blocco sciita nella regione.

La brama monopolista del premier arriva a coinvolgere ora la Banca centrale, organismo che –anche secondo i desideri di Washington- dovrebbe rimanere indipendente dalle ingerenze della politica. La destituzione del governatore Sinan al-Shabibi, raggiunto da un mandato di arresto il mese scorso con l’accusa di corruzione, sembra rientrare nel gioco politico di palazzo: già amico del banchiere e politico Ahmed Chalabi –ora all’opposizione di al-Maliki- al-Shabibi si è speso per l’adozione di un provvedimento -sgradito al premier- che proibisse il trasferimento di denaro all’Iran e alla Siria sottoposti a sanzioni internazionali.  L’anno passato, un’ analoga accusa di corruzione aveva condotto alla rimozione di Hussein al-Uzri, potente presidente della Trade Bank, la banca incaricata di regolare il commercio internazionale del paese nonché di gestire gli appetitosi fondi destinati ai progetti di ricostruzione dell’Iraq.

Incognite e interrogativi

La malattia che ha colpito il presidente curdo dell’Iraq, il settantanovenne Jalal Talabani, priva il paese di una figura chiave del circuito istituzionale; Talabani è infatti impegnato in una faticosa attività di mediazione fra le molteplici parti dello scacchiere iracheno. Di per sé, la coscienza della propria identità confessionale e/o etnica non costituisce un elemento di divisione nazionale: è invece l’uso strumentale delle differenze socio-culturali  -assunte a motivo di antagonismo politico- a scavare solchi profondi fra le diverse componenti di uno stesso territorio. Forse è per questo che nella storia recente dell’Iraq, vi sono momenti in cui le alterità religiose e culturali sembrano riuscire a coesistere e fasi nelle quali le specificità -e dunque le diversità-  paiono prevalere,  spingendo il paese sulla via della frammentazione territoriale. 

Per esempio, l’esperimento di Iraqiyya  -il cartello elettorale fra gruppi sciiti e sunniti vincitore delle elezioni del 2010- rappresenta un’occasione di superamento (seppur politicamente inefficace) della tradizionale dicotomia religiosa. E la leadership dello sciita laico Allawi, sottolineando la volontà di unificazione del paese, si è posta agli antipodi del modello seguito oggi da al-Maliki. L’attuale governo, muovendosi lungo la linea di faglia etnica (arabi, curdi) e quella confessionale (sciiti, sunniti)  asseconda attori e dinamiche pre-statali, proprio mentre utilizza gli strumenti offerti dalle istituzioni democratiche formali. Di fronte a questo scenario, è urgente domandarsi se oggi in Iraq esistano alternative –e quali esse siano- a una gestione autoritaria,  monopolista e divisiva del potere pubblico. E se l’incompiutezza della costruzione statuale di Baghdad stia esponendo il paese –ora più di ieri- al rischio di una comunitarizzazione violenta, in grado di allontanare ogni progetto di unità nazionale.