In giro per il mondo (Misna, 27 marzo 2013)

27.03.2013 16:18

(Centrafrica) COLPO DI STATO, L’ANALISI DI INTERNATIONAL CRISIS GROUP

Con un’intervista all’esperto di Centrafrica dell’International Crisis Group, Thibaud Lesueur, la MISNA propone una lettura dei fatti e dei meccanismi che in pochi giorni hanno portato al potere a Bangui la coalizione ribelle Seleka – nata lo scorso agosto ma passata all’offensiva a partire da dicembre – destituendo con un colpo di stato l’ex presidente François Bozizé.

In meno di 48 ore, partita da Bossangoa (160 km a nord di Bangui), la Seleka è riuscita a prendere il potere. Com’è stata possibile un’avanzata così rapida e vittoriosa?

La presa del potere da parte dei ribelli in tempo record è una nuova prova della debolezza dell’esercito centrafricano e della sua incapacità a difendere il regime. Dall’inizio della crisi centrafricana, nel dicembre 2012, le Forze armate centrafricane (Faca) sotto equipaggiate e demotivate non sono state in grado di arginare l’avanzata della Seleka. Il presidente Bozizé non ha mai voluto un esercito forte, temendo che un giorno potesse ritorcersi contro di lui. Inoltre la riforma dell’esercito prevista dal 1996, anno in cui si sono tenuti gli Stati generali della Difesa, è rimasta nel cassetto.

Poi quando i ribelli hanno capito che le forze della Micopax – Missione di consolidamento della pace della Comunità economica dell’Africa centrale – non si sarebbero frapposte, hanno deciso di lanciare un’ultima offensiva in direzione di Bangui per prendersi la capitale.

Sul terreno quale ruolo hanno avuto le truppe sudafricane dispiegate da Jacob Zuma lo scorso gennaio, un’unità di elite molto ben addestrata ed equipaggiata che in teoria avrebbe dovuto opporre maggiore resistenza ai ribelli?

I sudafricani erano posizionati tra Bangui e Damara (una settantina di km a nord). In 200 circa si sono pesantemente scontrati con i ribelli, che, secondo il presidente Zuma, erano in mille. Sono riusciti a resistere per un po’, ne dà prova la decina di vittime nei ranghi dell’esercito di Pretoria. Per il Sudafrica democratico, dopo la fine dell’apartheid nel 1994, si tratta della più grave perdita in vite umane in un’operazione militare. Il Sudafrica è presente in Centrafrica dal 2007, nell’ambito di un accordo bilaterale di cooperazione militare.

C’erano segnali sia al livello nazionale che regionale che lasciavano presagire la caduta, così rapida, del regime centrafricano?

In effetti c’era una serie di fatti registrati nelle scorse settimane che poteva annunciare tale esito, ma sui tempi non era così chiaro che sarebbero stati così repentini. Nonostante la firma degli accordi di pace di Libreville (11 gennaio), il cessate il fuoco è stato violato più volte e i ribelli hanno chiaramente annunciato la loro intenzione di marciare su Bangui se le proprie rivendicazioni non fossero state accolte. Poi il vicino Ciad e la stessa comunità regionale dell’Africa centrale, hanno adottato una posizione molto ambigua e passiva, agli antipodi di quanto è accaduto nel 2003. Dieci anni fa Bozizé aveva goduto del consenso implicito della regione per destituire il suo predecessore, Ange Félix Patassé.

Di preciso chi sono i ribelli della Seleka?

E’ una coalizione costituita da più gruppi armati originari del nord-est del Centrafrica – tra cui l’Ufdr e la Cpjp – che si sono uniti sotto la stessa bandiera. Hanno rafforzato i propri effettivi reclutando nuovi combattenti centrafricani, ciadiani e sudanesi durante la loro progressione verso la capitale. Hanno fortemente contribuito all’emergere della Seleka l’assenza del processo di disarmo, smobilitazione e reinserimento dei combattenti delle vecchie ribellioni del nord-est – previsto dall’accordo di pace globale di Libreville del 2008 e dalle raccomandazioni del dialogo politico inclusivo – così come il fatto che il regime di Bozizé non ha mai affrontato i problemi di sicurezza sul territorio nazionale.

Con l’arrivo di un nuovo potere non democratico a Bangui, quali sono i rischi e le sfide per il Centrafrica?

Ci sono saccheggi su vasta scala in corso a Bangui e si può temere che i dirigenti della Seleka non siano in grado di esercitare il pieno controllo sull’insieme delle truppe. L’urgenza oggi è ristabilire la sicurezza nella capitale e sul resto del territorio. Per questo motivo il nuovo governo dovrà insediarsi quanto prima. Il sostegno della Micopax per far tornare l’ordine a Bangui è altrettanto fondamentale.

 Quali possono essere le ripercussioni regionali del colpo di stato in Centrafrica?

L’impatto principale per i paesi vicini è di natura umanitaria, alla luce degli ingenti flussi di rifugiati già arrivati in Repubblica democratica del Congo e in Ciad. In seconda battuta, la cattura di Bangui da parte della Seleka potrebbe essere fonte di ispirazione per ribellioni già attive nelle nazioni frontaliere.

(Myanmar) LA CHIESA DI MEIKTILA ACCANTO ALLE VITTIME DELLA VIOLENZA

Acqua, cibo, coperte e medicine sono distribuite ogni giorno dalla Chiesa cattolica a migliaia di sfollati costretti a lasciare le loro case dagli scontri tra comunità cominciati la settimana scorsa nel Myanmar centrale: lo dice alla MISNA monsignor Francis Daw Tang, il vescovo di Meiktila, la diocesi dove la crisi è cominciata.

“Aiutare gli sfollati – sottolinea monsignor Tang – è il nostro modo per contribuire al dialogo e dare una chance alla pace”. Dialogo anzitutto tra la maggioranza buddista e la minoranza musulmana se, come conferma il vescovo, nella sua città la settimana scorsa sono state date alle fiamme diverse moschee.

Secondo le informazioni disponibili, i disordini sono cominciati dopo una disputa tra un commerciante e alcuni clienti. In seguito le violenze avrebbero contrapposto gruppi di buddisti a cittadini di religione musulmana. L’Onu ha calcolato che le vittime sono almeno 40 e gli sfollati circa 12.000.

Monsignor Tang dice che nella sua diocesi i disordini sono cessati dopo l’entrata in vigore di uno stato di emergenza e l’intervento dell’esercito. “Oggi – aggiunge il vescovo – i militari presidiano ogni angolo di Meiktila e le strade che portano fuori città”.

Le violenze , però, si sono estese ad altre zone del paese. Particolarmente colpita è la provincia meridionale di Bago, non lontana dall’ex capitale Yangon. Ufficiali di polizia hanno riferito che tra ieri e oggi moschee e case di musulmani sono state incendiate nelle città di Nattalin e di Zeegone. Secondo il quotidiano di Stato New Light of Myanmar, un coprifuoco dal tramonto all’alba è entrato in vigore nelle località di Gyobinggauk, Oakpho e Minhla.

Il Myanmar è un paese a maggioranza buddista, nel quale i musulmani costituiscono il 14% della popolazione e i cattolici appena l’1%. La Costituzione garantisce libertà di culto, ma tensioni di carattere sociale ed etniche hanno storicamente alimentato conflitti tra comunità in diverse regioni del paese.

(Perù) FUJIMORI: CRESCONO VOCI CONTRO L’INDULTO

“Non c’è alcuna ragione per concedere l’indulto”: a nome dei familiari dei 10 civili sequestrati e assassinati nella strage dell’Università La Cantuta, a Lima, perpetrata dai paramilitari nel 1992, Gisela Ortiz si è espressa così dopo la pubblicazione di un rapporto ufficiale sulle condizioni di salute dell’ex presidente Alberto Fujimori.

Secondo una commissione medica ufficiale, Fujimori, in carcere con una condanna a 25 anni per violazioni dei diritti umani e altre per corruzione, non soffre al momento del cancro che lo ha colpito anni addietro; motivazione addotta dai suoi parenti per sollecitarne l’indulto al presidente Ollanta Humala.

“Riconosco che questa è una potestà del presidente, ma non è una decisione indipendente perché si deve basare su questo rapporto medico…Sappiamo che una delle ragioni principali per concedere l’indulto è la gravità della malattia e quel che dice il rapporto è che non ha il cancro, non è gravemente malato, ma che ha solo le patologie tipiche dell’età e la depressione propria delle persone recluse” ha aggiunto Ortiz, parlando all’agenzia di stato Andina.

Al potere fra il 1990 e il 2000, Fujimori, 74 anni, è stato operato anni fa per un cancro alla lingua che è attualmente sotto controllo, sebbene soffra di ipertensione e depressione. La diagnosi ufficiale, secondo il procuratore anticorruzione Julio Arbizu, debilita nettamente la versione dei medici del presidente evidenziando che “non ha una malattia così grave che lo possa condurre alla morte a causa delle condizioni di detenzione in cui versa attualmente”.

Le condizioni invocate dai suoi figli “non sussistono – ha dichiarato Arbizu alla stampa – e credo che questo condurrà inesorabilmente al rifiuto dell’indulto”.

AVVIATI I NEGOZIATI PER LA BANCA DEI BRICS

L’apertura di un negoziato per l’istituzione di una banca di sviluppo, potenzialmente in grado di contrapporsi alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale, è uno dei risultati del vertice delle potenze emergenti del blocco dei Brics che si conclude oggi nella città sudafricana di Durban.

“Abbiamo deciso – ha annunciato il presidente Jacob Zuma – di aprire negoziati formali per istituire una nuova banca di sviluppo gestita dai Brics, pensata sia per far fronte ai nostri considerevoli bisogni in materia di infrastrutture, stimati in circa 4500 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni, che per cooperare con gli altri paesi emergenti e in via di sviluppo”. Di fronte ai capi di Stato e di governo degli altri quattro paesi dei Brics, Brasile, Russia, India e Cina, Zuma ha detto di essere “soddisfatto” che la creazione della banca sia “possibile”.

L’intesa è stata presentata come un passo importante anche dagli altri partecipanti al vertice. Secondo il primo ministro dell’India, Manmohan Singh, “la banca di sviluppo dei Brics apre le porte a nuove iniziative di cooperazione”.

Secondo alcune fonti di stampa, i “negoziati formali” potrebbero proseguire a margine del vertice del G20 in programma nella città russa di San Pietroburgo a settembre. Oggetto della trattativa dovrebbe essere la scelta della sede dell’istituto ma soprattutto i suoi meccanismi di governo e la sua dotazione iniziale di capitali. Una proposta presentata a Durban prevede stanziamenti di 10 miliardi di dollari da parte dei cinque paesi del blocco. Una somma, questa, che da sola vale il 2,5% del Prodotto interno lordo (Pil) del Sudafrica.

Quello di Durban è stato il quinto vertice dei capi di Stato e di governo dei Brics. Costituito quattro anni fa, visto a volte come un’alleanza tesa a contrastare un’egemonia politica ed economica di Stati Uniti ed Europa, il blocco vale da solo il 40% della popolazione e un quarto del Pil mondiale.

FORUM SOCIALE MONDIALE DI TUNISI, “SOFFIA UN VENTO DI CAMBIAMENTO”

“C’è un clima molto sereno, positivo e di grande partecipazione. Siamo stati accolti in modo fraterno. I paesi del Maghreb sono quelli più rappresentati e i loro cittadini hanno chiaramente il desiderio di conoscere gli altri, di imparare anche dal nord del mondo per non rimanere isolati” dice alla MISNA da Tunisi padre Daniele Moschetti, missionario comboniano che assieme ad altri 30 confratelli e religiose della sua congregazione stanno partecipando al XII Forum sociale mondiale (Fsm) sul tema della dignità.

 Ieri la manifestazione è stata inaugurata con un’assemblea delle donne al campus El-Manar di Tunisi. “L’anfiteatro era stracolmo di donne, per lo più maghrebine, che sono state in prima fila nelle proteste della primavera araba e che hanno sofferto per la perdita di un figlio durante le rivolte popolari del 2011” racconta padre Moschetti, sottolineando che tutte hanno auspicato “più diritti, più dignità e più partecipazione”. Ma non solo loro guardano al futuro con speranza, pur essendo consapevoli delle tante difficoltà ancora da superare. “Molti giovani che abbiamo incontrato ci hanno detto che sanno bene che la destituzione dei vecchi regimi dalla Tunisia all’Egitto sono soltanto un primo passo decisivo che ha aperto una nuova pagina storica. La strada verso il cambiamento è ancora lunga, ne sono consapevoli” prosegue il missionario comboniano. Almeno 30.000 persone hanno poi camminato dalla Piazza 14 gennaio fino allo stadio Menzah per partirà la marcia inaugurale dell’edizione tunisina del Forum, la prima a tenersi in un paese arabo.

Con i suoi confratelli padre Moschetti prende parte a nove incontri tematici che affrontano sfide determinanti per il futuro dei popoli del Sud del mondo, tra cui il land grabbing (accaparramento delle terre), il traffico di esseri umani, il dialogo con l’Islam, i processi di riconciliazione e pace.

“Per le vie della capitale tunisina si parla in tutte le lingue, si vedono tanti colori e volti così diversi tra di loro ma uniti da un progetto comune, quello avviato 12 anni fa a Porto Alegre: costruire un altro mondo è possibile” dice con convinzione l’interlocutore della MISNA, che vede nel Forum un’occasione unica di “incontrare l’Altro anche dal punto di vista culturale” grazie a una serie di attività culturali (dai film alla danza) e sportive.

Sul clima che si respira in Tunisia, protagonista del rivoluzione del gelsomino proprio con lo slogna della dignità che nel gennaio 2011 portò alla destituzione del regime di Zine el Abidine Ben Ali, il missionario comboniano si dice “piacevolmente sorpreso dalla serenità e dall’apertura che si avverte per le strade”, ma anche per le “strutture e edifici nuovi o ristrutturati che danno un nuovo volto alla capitale”. Solo del filo spinato attorno ad alcuni ministeri o ambasciate ricorda la tensione e il rischio di violenze delle scorse settimane, anche se il paese del nord africa deve far i conti con una situazione politica ancora instabile, un’economia ferma e un tasso di disoccupazione del 17%, mentre nelle remote regioni rimane il malcontento popolare all’origine della rivolta di due anni fa.

Dal 27 al 30 marzo – giorno di chiusura dell’evento con una marcia di solidarietà con il popolo palestinese, che coincide con l’Earth Day (Giorno della Terra) – si svolgeranno decine di sessioni di lavoro che affronteranno i temi portanti dell’iniziativa: giustizia sociale, lotta alla corruzione, accesso alla sanità e all’istruzione per la libertà, dignità e cittadinanza nei paesi della primavera araba. Ma a Tunisi si parla anche dell’austerità economica in Occidente, delle sfide ambientali per uno sviluppo sostenibile, dell’immigrazione e del debito del Sud del mondo.