In giro per il mondo (Misna, 25 marzo 2013)

25.03.2013 13:53

(Argentina) MIGLIAIA IN PIAZZA PER ANNIVERSARIO GOLPE 1976

“Trentamila compagni ‘desaparecidos’, presenti ora e sempre” è stato lo slogan più ripetuto in una gremita Plaza de Mayo, a Buenos Aires, nella Giornata nazionale della memoria per la verità e la giustizia con cui è stato commemorato ieri il 37° anniversario del golpe del 24 marzo 1976 che instaurò l’ultima dittatura militare in Argentina (1976-1983).

Di fronte a una folla di persone che sventolavano bandiere nazionali e fotografie dei cari loro scomparsi, a nome di diverse organizzazioni a difesa dei diritti umani la presidente delle Nonne di Plaza de Mayo, Estela de Carlotto, ha invocato “una giustizia democratica, che riconosca la società civile” protagonista della resistenza al regime. “In Argentina – ha detto de Carlotto – si processano i genocidari perché si è deciso di ascoltare non solo i sopravvissuti ma un intero popolo”.

A dare l’impulso iniziale ai processi per i responsabili di crimini di lesa umanità, promuovendo l’abolizione delle cosiddette ‘leggi del perdono’, fu il defunto Néstor Kirchner; “un presidente – ha aggiunto de Carlotto – che decise che l’impunità non sarebbe stata eterna e che per ricostruire un paese occorreva riconoscere la lotta del popolo. Quattro anni dopo, Cristina ha ripreso questo impegno e continua ad approfondirlo; ci sono molte cose che restano da fare, anche se siamo sulla buona strada”.

La presidente Cristina Fernández ha ricordato le vittime della dittatura attraverso Twitter: “Continuare a lottare per una maggiore uguaglianza, per coloro che hanno di meno – ha scritto – per stare sempre insieme a loro. Questo è il mandato dei 30.000 ‘desaparecidos’ ”.

(Mali) ANCORA SCONTRI A GAO, AQMI NOMINA NUOVO CAPO

Almeno sette persone sono rimaste uccise, di cui due civili, quattro jihadisti e un soldato maliano, negli scontri che si sono verificati ieri a Gao, il capoluogo nord-orientale liberato a fine gennaio dalla morsa dei gruppi armati legati ad Al Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi). Gli scontri, durati diverse ore, sarebbero cominciati dopo che nella notte tra sabato e domenica colpi d’obice avrebbero raggiunto un campo militare dell’esercito maliano basato a Gao. “Procediamo a un’operazione di rastrellamento per sloggiare eventuali islamisti infiltrati in città” hanno riferito fonti della sicurezza locale. L’attacco notturno a Gao è stato rivendicato dal Movimento per l’unità e il jihad in Africa occidentale (Mujao): “Sabato alla mezzanotte nove mujahidine sono arrivati a Gao e hanno attaccato un campo militare. Continueremo fino alla vittoria finale” ha dichiarato Oumar Wahab, dirigente del Mujao che nei mesi scorsi aveva a Gao uno dei suoi maggiori feudi nel nord del Mali. Da diverse ore la situazione sarebbe tornata “calma” e le truppe maliane sostenute da quelle francesi dell’operazione Serval starebbero effettuando pattuglie in città. Nonostante la sua liberazione, il capoluogo settentrionale rimane instabile: tra febbraio e marzo diversi attentati e attacchi armati sono stati messi a segno anche da uomini di Aqmi e di Ansar Al Din.

 La situazione è ancora incerta anche al centro del paese, dopo l’attacco dei giorni scorsi a un convoglio nel villaggio di Gnagna, nella regione di Mopti, nel quale tra cinque e dieci civili hanno perso la vita. L’esercito maliano ha attribuito la responsabilità dell’accaduto ai tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla). “Condanniamo con fermezza questi attacchi barbari che fanno apparire il vero volto dell’Mnla” ha detto il colonnello Souleymane Maiga, portavoce delle forze armate maliane. “Non c’entriamo niente con questo attacco. Gli individui armati presenti in quella zona sono residui dei gruppi terroristi utilizzati dall’esercito maliano per creare caos” ha replicato Ibrahim Ag Assaleh, un dirigente della ribellione tuareg esiliato a Ouagadougou.

Inoltre proseguono le ricerche di armi, munizioni e jihadisti da parte dei soldati francesi nella valle del Tigharghar (nord-est), considerata una delle principali roccaforti di Aqmi, dove sono già stati rinvenuti diversi accampamenti contenenti provviste e armamenti. E’ nel territorio montuoso degli Ifoghas che, a fine febbraio, è rimasto ucciso Abdelhamid Abou Zeid, uno dei principali comandanti di Aqmi. A darne conferma è stata anche la presidenza francese: “La scomparsa di uno dei principali capi di Aqmi segna una tappa importante nella lotta al terrorismo nel Sahel” si legge in un comunicato diffuso dall’Eliseo. Dalla confinante Algeria è invece giunta la notizia che il capo defunto è stato sostituito dall’algerino Djamel Okacha, 34 anni. Okacha, pseudonimo di Yahia Abou el-Hammam, è una personalità molto vicina al massimo responsabile di Aqmi, Abdelmalek Droukdel. La sua nomina dovrebbe essere confermata durante una riunione della direzione di Aqmi da tenersi nei prossimi giorni.

A cambiare direzione è anche l’ambasciata di Francia a Bamako, posto che il ministero degli Esteri di Parigi ha assegnato al diplomatico Gilles Huberson, finora alla guida di una cellula speciale di crisi dedicata al Mali e al Sahel. Subentrerà a Christaian Rouyer, in carica dal 2011, che non aveva ancora finito la sua missione diplomatica maliana. “Il Mali fa cadere teste al Quai d’Orsay” ha scritto di recente il quotidiano francese Le Figaro, precisando che la sostituzione di Rouyer non è mai stata ufficialmente spiegata così come quella di altri diplomatici allontanati o spostati senza motivazioni apparenti mentre un intervento militare è tutt’ora in corso. Tta questi c’è stato il vice-direttore degli Esteri in carica della crisi a Bamako, Laurent Bigot, destituito dopo aver denunciato la corruzione dilagante all’interno dello Stato maliano.

(Centrafrica) TREGUA CON I SUDAFRICANI PRIMA DELLA PRESA DI BANGUI

Hanno combattuto venerdì e poi ancora sabato, quando i ribelli hanno raggiunto la loro base alla periferia di Bangui. A quel punto hanno scelto di trattare e firmare la tregua, di fatto spalancando le porte della capitale alla coalizione ribelle Seleka e costringendo il presidente alla fuga.

A raccontare alla MISNA gli ultimi giorni dei militari sudafricani nel Centrafrica di François Bozizé sono ufficiali delle Forze armate di Pretoria e diplomatici di lungo corso. Versioni a volte non coincidenti, ma che le almeno 13 vittime sudafricane mettono in qualche misura d’accordo: “Le nostre truppe sono state risucchiate nel conflitto”.

Il punto di partenza è il memorandum d’intesa sottoscritto a dicembre dal governo di Bozizé con quello di Jacob Zuma. “Un documento – spiega alla MISNA il generale Xolani Mabanga, portavoce delle Forze nazionali di difesa del Sudafrica – che prevedeva una missione di ‘training’ e ‘capacity building’ a beneficio delle truppe centrafricane, ma non un sostegno diretto in operazioni belliche”.

Sarebbe stata questa la linea alla quale si sono attenuti i circa 400 militari giunti a Bangui a inizio gennaio. La prima battaglia con i ribelli si sarebbe svolta soltanto venerdì pomeriggio e sarebbe stata innescata da un’imboscata degli uomini della Seleka a una pattuglia sudafricana in ricognizione sulla strada che dalla capitale conduce alla ‘linea rossa’ di Damara, 75 chilometri a nord della capitale. È questo l’episodio che, venerdì pomeriggio, aveva spinto fonti della sicurezza centrafricana ad annunciare l’arresto dell’avanzata dei ribelli. Ma la situazione si era evoluta rapidamente. “I ribelli hanno raggiunto la nostra base sabato mattina – dice il generale Mabanga – e il nostro contingente è stato impegnato in scontri a fuoco per ore”. Undici delle almeno 13 vittime sudafricane avrebbero perso la vita in questa fase, prima che nella serata di sabato si aprisse una trattativa con i ribelli e fosse concordato un cessate-il-fuoco. L’ufficiale non lo dice ma tutto lascia pensare che la decisione di Bozizé di fuggire sia stata presa in queste ore, venuto meno il sostegno di quello che a dispetto della lettera degli accordi con Pretoria era stato visto come l’ultimo baluardo.

Secondo Tom Wheeler, veterano del dipartimento degli Affari esteri di Pretoria, ora ricercatore presso il South African Institute for International Affairs, quella sudafricana è stata un’avventura finita male. “Le nostre truppe – dice alla MISNA l’ex diplomatico – sono state risucchiate nel conflitto”. Sul piano politico l’invio delle truppe era coerente con la posizione dell’Unione Africana contro i colpi di Stato. “Nonostante nel 2003 Bozizé avesse conquistato il potere grazie a un golpe – sottolinea Wheeler – la priorità era difendere il governo da un cambiamento incostituzionale”. Eppure Zuma doveva essere cosciente dei rischi. “Già a dicembre – ricorda l’ex diplomatico – il presidente François Hollande gli aveva detto che la Francia non sarebbe intervenuta militarmente in Centrafrica, adottando dunque una linea differente rispetto al Mali”. Difficile allora immaginare cosa si siano detti Zuma e Bozizé durante il breve incontro avuto a Pretoria giovedì, appena tre giorni prima della caduta di Bangui. In quei giorni in Sudafrica la preoccupazione era già alta. Oggi il sindacato dei militari ha accusato il governo di non aver ritirato le truppe dopo che Bozizé, definito “un dittatore e un codardo”, aveva violato gli accordi per un cessate-il-fuoco sottoscritti a Libreville in gennaio. Sempre oggi Zuma ha detto che il contingente sudafricano, per il momento, resterà in Centrafrica. “I nostri soldati – ha azzardato il presidente – hanno pagato il prezzo ultimo del servizio al loro paese, l’Africa”.