In giro per il mondo, agenzia Misna, 4 marzo 2013

04.03.2013 12:46

(Perù) IN VIGORE TRATTATO COMMERCIALE CON UNIONE EUROPEA.

“Do il benvenuto all’applicazione provvisoria dell’accordo con il Perù e spero che potremo annunciare lo stesso con la Colombia il prima possibile”. In una nota ufficiale, il commissario europeo per il Commercio, Karel De Gucht, ha annunciato l’entrata in vigore nel fine-settimana dell’ampio trattato commerciale siglato con Lima.

Un accordo che, a detta di De Gucht, rappresenta “un passo importante verso il rafforzamento delle nostre relazioni commerciali e di investimento” che presto dovrebbe essere finalizzato anche con la Colombia. “In tempo di crisi – ha aggiunto – con una domanda interna limitata e bilanci sistemati, il commercio può aiutare a promuovere la crescita e il lavoro senza causare maggiore pressione sulle casse dello Stato”

Nel 2012 la Ue ha chiuso i negoziati con i due paesi andini per aprirne i mercati alle esportazioni. Nel caso del Perù le procedure sono state completate al livello bilaterale; l’accordo è quindi entrato in vigore in via provvisoria in attesa della ratifica dei Ventisette. Secondo la Ue, il trattato farà risparmiare agli esportatori di entrambi i blocchi oltre 500 milioni di euro l’anno solo in dazi doganali.

Il Perù importa dalla Ue essenzialmente macchinari e mezzi di trasporti, esportando soprattutto combustibile e prodotti minerari.

(Kenya) IN FILA AI SEGGI PER UN VOTO “STORICO”.

Lunghe file ai seggi, da questa mattina all’alba, stanno caratterizzando un voto percepito come “storico”: lo dicono alla MISNA missionari e giornalisti raggiunti in varie regioni del Kenya, nonostante notizie relative a un agguato a una pattuglia di polizia che si è verificato nei pressi del porto di Mombasa.

“La gente è in fila dall’alba e sembra che a votare stiano andando davvero tutti” dice Paul Brennan, un religioso della congregazione dei Fratelli di San Patrizio. Parla da Eldoret, una città della regione occidentale della Rift Valley che fu uno degli epicentri delle violenze seguite alle ultime elezioni del dicembre 2007. Elezioni contestate, sfociate nella violenza di strada, nelle rappresaglie tra luo, kikuyu, kalenjin e altri gruppi etnici aizzati da politici decisi a trarre vantaggio dalle logiche dell’appartenenza comunitaria. In poche settimane, furono uccise più di 1300 persone e 350.000 furono costrette a lasciare le loro case. “Il ricordo di quel dramma è vivo nel cuore di tutti – dice fratel Brennan – ma per fortuna non sta impedendo alla gente di esprimere liberamente le proprie preferenze”.

Di una forte partecipazione racconta anche Micheal O’Meara, corrispondente in Kenya dell’Associazione dei giornalisti dell’Africa orientale. La MISNA lo raggiunge a Kiambu, la cittadina alle porte di Nairobi dove è nato il vice-primo ministro Uhuru Kenyatta, uno dei due candidati favoriti per la conquista della presidenza. “I keniani – sottolinea O’Maera – si rendono conto che questo è un momento storico e non vogliono mancare all’appuntamento, tanto più dopo quello che è accaduto cinque anni fa”.

Circa 14 milioni di aventi diritto possono scegliere tra Kenyatta, il primo ministro Raila Odinga e altri sei candidati alla presidenza. Sulla base di una Costituzione entrata in vigore nel 2010, eleggono anche i deputati del parlamento e i consiglieri di diversi livelli di governo.

Per garantire la sicurezza fino alla chiusura delle urne, prevista alle cinque del pomeriggio ora locale, sono stati dispiegati 99.000 poliziotti. Proprio una pattuglia di agenti è stata l’obiettivo dell’agguato avvenuto nei pressi di Mombasa, prima dell’apertura dei seggi. Secondo il comandante in capo della polizia keniana, David Kimaiyo, nello scontro a fuoco sono rimasti uccisi sei agenti e sei aggressori. L’ufficiale ha ipotizzato un coinvolgimento del gruppo secessionista Mombasa Republican Council (Mrc).

(Bangladesh) ANCORA VIOLENZE PER CONDANNA DIRIGENTE POLITICO.

Decine di persone sono state uccise nel fine-settimana durante scontri tra sostenitori di Jamaat-e-Islami, da una parte, e dimostranti filo-governativi e poliziotti, da un’altra: lo riferiscono i mezzi di informazione del Bangladesh, nel secondo giorno di uno sciopero nazionale convocato dal partito islamista.

Secondo il quotidiano Daily Star, solo nei distretti di Joypurhat, Jhenidah e Rajshahi sono state uccise nove persone. Stando a un altro bilancio, relativo all’intero territorio del Bangladesh, scontri avvenuti tra ieri sera e questa notte hanno causato 24 vittime.

Ieri Jamaat-e-Islami ha convocato uno sciopero per protestare contro le condanne comminate ad alcuni suoi dirigenti in relazione a crimini di guerra che sarebbero stati commessi durante la guerra d’indipendenza dal Pakistan, nel 1971. A innescare le violenze è stata una sentenza di condanna a morte emessa giovedì nei confronti del vice-presidente del partito, Delwar Hossain Sayedee.

Tra il 2001 e il 2006 Jamaat-e-Islami aveva sostenuto il governo del Partito nazionalista del Bangladesh, oggi all’opposizione.

(Repubblica Democratica del Congo) NORD KIVU: RUTSHURU TORNA AI RIBELLI DELL’M23.

I ribelli del Movimento 23 marzo (M23) hanno riassunto il controllo di una cittadina della provincia orientale del Nord Kivu grazie al ritiro dell’esercito e di alcune milizie considerate sue alleate: lo ha riferito Radio Okapi, l’emittente delle Nazioni Unite nella Repubblica democratica del Congo.

Stando a questa ricostruzione, i ribelli sono entrati a Rutshuru e nella vicina località di Kiwanja ieri mattina, poche ore dopo il ritiro dell’esercito e alcune colonne delle Forze democratiche di liberazione del Rwanda (Fdlr).

L’M23 aveva occupato la regione di Rutshuru a luglio ma la settimana scorsa l’aveva abbandonata, sembra anche a causa di contrasti interni al gruppo sfociati in scontri armati.

La decisione dell’esercito è stata criticata da alcuni esponenti della società civile del Nord Kivu. “Il governo congolese – ha detto Omar Kavota – deve fare in modo che la sua parola d’onore e le sue promesse alla popolazione siano rispettate; in gioco c’è anche la sua dignità”. Alcune fonti di stampa ipotizzano che il ritiro dell’esercito sia frutto di un accordo con una delle fazioni dell’M23, accordo che prevedrebbe un’integrazione dei ribelli nelle Forze armate.

(Benin) ARRESTI PER UN PRESUNTO TENTATIVO DI COLPO DI STATO.

Un colonnello dell’esercito e un uomo d’affari sono stati arrestati in Benin in relazione a un presunto tentativo di golpe ai danni del presidente Thomas Boni Yayi: lo ha annunciato ieri sera a Cotonou il procuratore Justin Gbenameto, secondo il quale gli inquirenti stanno effettuando una serie di interrogatori.

Secondo Gbenameto, che ha letto ai giornalisti una nota ufficiale, i golpisti avrebbe voluto impedire a Boni Yayi di ritornare da una visita di Stato in Guinea Equatoriale e instaurare un regime militare. Nei giorni scorsi a finire in manette sono stati il colonnello Pamphile Zomahoun e l’uomo d’affari Johannes Dagnon.

Formazione da economista, 60 anni, Boni Yayi è stato rieletto per un secondo mandato alla presidenza nel 2011. In Benin di golpe si era parlato anche lo scorso anno: in quell’occasione erano stati arrestati l’imprenditore Patrice Talon e un nipote del capo dello Stato.

(Egitto) NUOVE VIOLENZE A PORT SAID.

Non accennano a stemperarsi le tensioni a Port Said dove una nuova ondata di violenze tra manifestanti e agenti di polizia ha causato nelle ultime 24 ore almeno quattro morti e oltre 300 feriti. La spirale delle violenze, secondo le versioni in circolazione, sarebbe stata innescata da un incidente avvenuto venerdì, quando un ufficiale di polizia ha investito cinque manifestanti che partecipavano al corteo per la disobbedienza civile.

Altri riferiscono che a rinfocolare la tensione sarebbe stata invece la decisione delle autorità di trasferire 39 detenuti in attesa della sentenza sui disordini che, nel febbraio dell’anno scorso durante una partita di calcio, provocarono la morte di 70 persone.

Ieri una folla di persone armate ha assaltato una sede di polizia, lanciando bottiglie incendiarie contro l’ingresso dell’edificio. Gli agenti hanno risposto con gas lacrimogeni e fucili a piombini sui manifestanti che inneggiavano all’esercito che, contrariamente alla polizia, secondo un’opinione diffusa, si è rifiutato di reprimere le rivolte di piazza.

Molti dei residenti nella città costiera, situata all’ingresso del Canale di Suez e pertanto strategica ai fini del commercio e delle esportazioni, denunciano un eccessivo uso della forza da parte della polizia che, lo scorso mese di gennaio in occasione di simili proteste, aveva causato la morte di una quarantina di persone.

L’Eco degli scontri non ha avuto troppo impatto sulla visita del Segretario di Stato americano John Kerry, al Cairo nei giorni scorsi nell’ambito di un viaggio a tappe che lo ha portato anche a Istanbul e Roma. Il capo della diplomazia di Washington ha promesso aiuti al paese per uscire dalla profonda crisi economica in cui versa ma non ha potuto incontrare i principali vertici dell’opposizione politica. Questi ultimi hanno disertato l’incontro accusando gli Stati Uniti di “ingerenza” nella politica egiziana dopo che Washington ha chiesto loro di ritirare l’annunciato boicottaggio alle prossime elezioni legislative indette ad aprile.

(Madagascar) SUORA FRANCESE UCCISA, ARRESTATI TRE SOSPETTI.

Le autorità hanno fermato tre persone accusate dell’omicidio di suor Marie Emmanuel Helesbeux, 80 anni di nazionalità francese, uccisa venerdì a Mandritsara, a nord della capitale Antananarivo. Lo riferisce la stampa francofona dell’isola, ex colonia francese, dove l’omicidio ha causato lo sconcerto e lo sdegno di gran parte dell’opinione pubblica.

La religiosa, appartenente alla Comunità della Provvidenza, viveva in Madagascar dai primi anni ’70 e aveva lavorato a lungo come infermiera.

I tre uomini, tra cui un ex dipendente della casa in cui abitava la missionaria, avrebbero confessato l’omicidio, scaturito da una disputa per la vendita di un appartamento di cui l’uomo si era impossessato illegalmente.

Le esequie si terranno oggi in un clima di tensione crescente nella cittadina, dove la suora era conosciuta e apprezzata per la sua attività caritatevole. Ieri centinaia di persone si sono accalcate davanti al commissariato in cui i tre rei confessi sono detenuti. La polizia ha disperso la folla per evitare esplosioni di violenza.

(Africa) CON “TEY” IL CINEMA DEL SENEGAL CONQUISTA IL FESPACO.

“Tey” (“Oggi”) del regista Alain Gomis ha regalato per la prima volta al Senegal lo Stallone d’oro di Yennenga, il premio più prestigioso assegnato al Festival panafricano del cinema (Fespaco) che si è concluso nel fine-settimana a Ouagadougou.

“Dopo 44 anni il Senegal vince lo Stallone di Yennenga” titola oggi a tutta pagina l’edizione online del quotidiano di Dakar Le Soleil. A rendere omaggio alla “rinascita” del cinema senegalese sono però giornali e portali di informazione di tutto il continente. In Burkina Faso, il paese che ospita il Festival dal 1969, Le Faso sottolinea come il Senegal abbia conquistato anche lo Stallone di bronzo con “La Pirogue” (“La piroga”) di Moussa Touré.

“Tey” indaga il rapporto tra la vita e la morte attraverso gli occhi di Satché, un uomo che ha soltanto poche ore e decide di incontrare i familiari, gli amici, il primo amore…

Quarantuno anni, figlio di padre senegalese e madre francese, residente a Parigi ma cittadino del mondo, Gomis ha detto di esser “fatto di pezzi differenti” e di esser convinto che il cinema abbia bisogno di “diversità”. Il suo stesso lavoro, ha aggiunto, deve molto alla Francia e al Senegal ma anche alla Guinea Bissau.

Al di là del trionfo del cinema senegalese, la ventitreesima edizione del Festival ha riservato emozioni e sorprese. Lo Stallone d’argento è andato alla regista algerina Djamila Sahraoui, autrice di “Yema”. Un premio speciale per la pace, messo in palio dall’Unione Africana, è stato invece assegnato a “Toiles d’araignée” (“Ragnatela”) del maliano Ibrahim Touré.

(Guatemala) PREOCCUPA RINUNCIA COMMISSARIA CONTRO IL ‘FEMMINICIDIO’.

“È una donna molto coraggiosa: è molto preoccupante il fatto che abbia rinunciato perché dimostra che non si sta facendo quello che si dovrebbe”: così Nadine Gasman, responsabile della campagna dell’Onu contro la violenza sulle donne ‘Únete’, ha commentato il ritiro di Alba Trejo, commissaria presidenziale contro il ‘femminicidio’.

Trejo, giornalista nonché unica personalità a ricoprire lo speciale incarico dall’agosto 2008, ha presentato le dimissioni la settimana scorsa denunciando ragioni di sicurezza, precisando di essersi allarmata dopo aver visto a più riprese un uomo controllare l’ingresso della sua casa. “Non voglio che mi accada qualcosa come quello che è accaduto a Lea” ha dichiarato Trejo, riferendosi a Lea De León, avvocato penalista e moglie dell’editore del quotidiano nazionale ‘Prensa Libre’, assassinata il 14 febbraio a Città del Guatemala. “Ho una famiglia e le mie figlie hanno solo me. Abbiamo realizzato 1200 arresti di responsabili di aggressioni e 50 di assassini di donne” ha aggiunto, sottolineando la difficoltà di individuare al momento da dove possano essere venute le intimidazioni di cui è stata bersaglio.

Esprimendo preoccupazione per la sorte di Trejo, Gasman ha ricordato che nella regione latinoamericana e caraibica si verifica un quarto degli omicidi di donne di tutto il mondo: “Salvador e Guatemala sono i primi paesi per tasso… Viviamo in un’area dove c’è una violenza estrema ma anche dove gli Stati non compiono il proprio dovere di proteggere le donne” ha detto ancora la direttrice della campagna dell’Onu.

Secondo dati ufficiali, solo nel 2012 sono state 708 le donne uccise in Guatemala; dall’inizio del 2013 sono 103.