(In giro per il mondo) agenzia Misna, 25 febbraio 2013

25.02.2013 09:26

(Tanzania) ZANZIBAR: CAMBIAMENTI CLIMATICI, A RISCHIO LE ‘SERRE DEL MARE’.

I cambiamenti climatici e l’aumento delle temperature marine stanno causando gravi danni alla coltivazione di alghe, voce importante dell’economia dell’isola di Zanzibar. Lo riferiscono fonti di stampa locale sottolineando che le alghe – utilizzate per la fabbricazione di medicinali e all’interno di diversi alimenti – sono un prodotto molto richiesto all’estero e sulla cui coltivazione e raccolta si basa la stabilità dei migliaia di famiglie.

Fino a pochi anni fa le ‘serre del mare’ come vengono chiamate dagli isolani, impiegavano circa 20.000 ‘contadini’, perlopiù donne, e la coltivazione di questi organismi vegetali – pregiati come le alghe rosse, molto richieste anche dai produttori di cosmetici – costituiva la prima voce delle esportazioni dall’isola dopo le spezie e i manufatti in rafia.

A lanciare l’allarme è oggi il dipartimento di risorse marine di Zanzibar, secondo cui la produzione negli ultimi anni è crollata dalle 14 tonnellate del 2007 alle circa 10 dello scorso anno. Una delle cause del tracollo, concordano gli esperti, sarebbe riconducibile all’aumento progressivo delle temperature dell’acqua, passate da una media di circa 30 gradi centigradi nei primi anni ’90 ai 38 rilevati di recente.

Per far fronte alla situazione, gli esperti stanno studiando la possibilità di impiantare delle colture nelle acque profonde, meno sensibili ai mutamenti del clima e delle correnti di acqua calda determinate dal riscaldamento marittimo.

La produzione di alghe dalle varietà rinomate, come Cottonii e Spinosum, è stata importata a Zanzibar dalle Filippine, quando i primi venditori asiatici rilevarono le ottime potenzialità delle acque dell’Oceano Indiano per questo tipo di coltivazioni.

(Cisgiordania) MUORE DETENUTO PALESTINESE, TENSIONE E SCIOPERI.

Resta altissima la tensione in Cisgiordania teatro di manifestazioni di protesta dopo la morte di un detenuto palestinese morto nelle carceri israeliane e “torturato a morte” secondo le accuse. Arafat Jaradat, trentenne e padre di due figli, era morto ieri nel carcere di Megiddo per ciò che le autorità hanno definito un arresto cardiaco.

Intanto circa 4500 palestinesi nelle carceri israeliane hanno dato vita ad uno sciopero della fame in segno di protesta.

Nella giornata di ieri in tutto il territorio si sono svolti cortei e sit-in per la morte del detenuto, in tal numero che hanno spinto il governo israeliano a chiedere formalmente all’Autorità nazionale palestinese di darsi da fare “con i mezzi necessari per riportare la calma”.

Il messaggio è stato trasmesso all’Anp tramite Itzhak Moljo, il consigliere legale del premier Benjamin Netanyahu, che ha annunciato inoltre l’avvio del trasferimento all’Autorità palestinese delle entrate derivanti dalle tasse, che Israele raccoglie.

Nel frattempo, B’Tselem, organizzazione per i diritti umani in Palestina, ha fatto esplicita richiesta di un’investigazione privata e indipendente sulla morte del giovane.

(Repubblica Democratica del Congo) PACE NELL’EST, FIRMATO ACCORDO REGIONALE.

I rappresentanti dell’Africa orientale hanno firmato ad Addis Abeba, nella sede dell’Unione Africana, un accordo di pace per l’est della Repubblica Democratica del Congo, teatro di un annoso conflitto armato. Alla presenza del Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon, 11 tra capi di Stato e responsabili della regione dei Grandi Laghi si sono impegnati a riportare “pace e giustizia” nella regione martoriata dalle ribellioni armate.

L’accordo prevede la creazione una “revisione strategica” della missione di pace dell’Onu dispiegata nell’est del Congo (Monusco) e una serie di ‘tappe’ sul piano politico e diplomatico per ristabilire la sicurezza sul territorio. Tra gli impegni principali sottoscritti dai firmatari quello di “non tollerare né dare sostegno a nessun tipo di gruppo armato” nel paese. Rwanda e Uganda sono stati accusati a più riprese di finanziare e armare i ribelli del Movimento 23 marzo (M23)che nel dicembre 2012 ha scatenato un’offensiva arrivando ad occupare il capoluogo di Goma, prima di accettare un ritiro in cambio dell’apertura di negoziati con il governo di Kinshasa. Kigali e Kampala hanno sempre smentito il loro sostegno alla ribellione.

In base all’accordo, la Monusco, già forte di 17.000 uomini, sarà integrata di una “brigata di intervento” dotata di un mandato per “l’imposizione della pace”. Questa forza internazionale da dispiegare lungo la frontiera con il Rwanda dovrà, di fatto, neutralizzare i gruppi armati presenti nella zona: oltre all’M23 anche le Forze democratiche per la liberazione del Rwanda (Fdlr), l’Alleanza democratica – Esercito nazionale per la liberazione dell’Uganda (Adf – Nalu) e i burundesi delle Forze nazionali di liberazione (Fnl).

Inoltre, i paesi limitrofi e la comunità internazionale sono incaricati di mettere in piedi un meccanismo di monitoraggio e verifiche incrociate riguardo l’effettiva pacificazione del territorio, sotto il coordinamento di un inviato speciale che sarà nominato dalle Nazioni Unite.

Dal canto suo, il governo di Kinshasa si è impegnato a portare a termine riforme strutturali, in particolare nel settore della sicurezza interna, promuovendo la riconciliazione nazionale, la tolleranza e la democratizzazione. “È venuto il momento di lasciarsi alle spalle questa logica fondata sulla legge del più forte anziché sulla forza della legge” ha detto il presidente Joseph Kabila durante la cerimonia per la firma dell’accordo.

“Si tratta solo dell’inizio di un percorso, di un approccio globale che ha bisogno di un impegno costante da parte di tutti’” ha osservato subito dopo il Segretario generale dell’Onu auspicando “l’avvio di un’era di stabilità e pace” per la regione del Kivu.