In giro per il mondo (agenzia Misna, 20 marzo 2013)

20.03.2013 17:05

(Medio Oriente) OBAMA IN ISRAELE, “NOSTRA ALLEANZA È ETERNA” (13:45)

L’Airforce one con a bordo il presidente degli Stati uniti Barak Obama è atterrato circa un’ora e mezza fa all’aeroporto di Tel Aviv inaugurando ufficialmente la prima visita dell’inquilino della Casa Bianca in Israele e Palestina. Accolto dal primo ministro del Likud Benjamin Nethanyahu e dai vertici della politica israeliana all’aeroporto Ben Gurion Obama ha tenuto un primo discorso in cui ha ribadito “la solidità dell’alleanza eterna” con Israele auspicando nel contempo che “la pace faccia ritorno in Terra Santa”.

Tuttavia, nei giorni che hanno preceduto la prima visita di Stato del presidente americano nella regione, diplomatici e commentatori vicini all’amministrazione di Washington hanno cercato di stemperare precoci entusiasmi per un possibile rilancio dei negoziati di pace. “Obama non ha un piano preciso e ci vuole molta immaginazione per aspettarsi un colpo di scena nei prossimi giorni” si legge nell’editoriale pubblicato oggi da Ha’aretz secondo cui in cima all’agenda dei colloqui tra i due paesi saranno la crisi siriana e le ambizioni nucleari di Teheran.

Momenti centrali della visita a tappe saranno il discorso che Obama pronuncerà giovedì al Jerusalem International Convention Center (meno simbolico della Knesset, il parlamento israeliano), l’omaggio alla tomba di Theodor Herzl padre del sionismo e la visita, venerdì, alla chiesa della natività a Betlemme, in Cisgiordania. Nel corso della giornata di venerdì è previsto anche un incontro a Ramallah con il presidente palestinese Mahmoud Abbas.

A Gaza, ma anche in Cisgiordania nei giorni scorsi non sono mancate manifestazioni e proteste: migliaia di palestinesi sono scesi in strada per criticare gli Stati Uniti e il loro sostegno ad Israele.

In Giordania, ultima tappa del viaggio, Obama si fermerà per 24 ore. La monarchia hashemita accoglie oltre 450.000 rifugiati siriani in campi di accoglienza e assistiti da diverse organizzazioni umanitarie.

(Nigeria) NAUFRAGIO NEL GOLFO DI GUINEA, SI TEMONO MOLTE VITTIME (13:58)

Potrebbero essere decine le vittime del naufragio di un battello avvenuto a largo della costa sud-orientale della Nigeria: lo dice alla MISNA Yishau Shuaib, portavoce dell’Agenzia nazionale per la gestione delle emergenze, sostenendo che a bordo dell’imbarcazione viaggiavano quasi 130 passaggeri.

“I sopravvissuti portati in salvo solo solo due – dice Shuaib – ma le operazioni di soccorso stanno continuando”. Almeno per ora il responsabile non conferma le testimonianze raccolte da un’agenzia di stampa straniera, secondo le quali nell’ospedale della città di Calabar sono già stati portati i cadaveri di 45 naufraghi.

Shuaib riferisce che il naufragio è avvenuto circa 70 chilometri a largo delle coste di Cross River, uno Stato confinante con il Camerun. Secondo il responsabile, però, sulla provenienza e la destinazione del battello sono ancora in corso verifiche. Alcune fonti sostengono che la nave sia partita venerdì dal porto di Oron e che fosse diretta in Gabon, ma resta da capire quando sia effettivamente avvenuto il naufragio.

(Paraguay) CAMPAGNA ELETTORALE SBARCA SUI MEDIA (14:13)

A partire da oggi la campagna per le elezioni del 21 aprile approderà anche sui mezzi di informazione del Paraguay, terreno di scontro principalmente fra i candidati chiamati a succedere per mezzo delle urne al presidente deposto Fernando Lugo, dopo l’interim affidato al suo controverso vice, Federico Franco.

Rimosso nel giugno dello scorso anno con un ‘impeachment’ condannato dalla maggior parte dei governi latinoamericani, l’ex vescovo di San Pedro, portavoce del centro-sinistra, è il grande assente dalla competizione; manca anche l’ex generale golpista Lino Oviedo, deceduto in un incidente di elicottero a febbraio mentre era di ritorno ad Asunción dopo un comizio.

Ottenuto l’allontanamento di Lugo, i conservatori Colorados preparano già da tempo l’offensiva mediatica per riconquistare il potere perso nel 2008, con Horacio Cartes, della Asociación Nacional Republicana; ilm suo diretto rivale è Efraín Alegre, del Partido Liberal Radical Auténtico (Plra); seguono Mario Ferreiro, già legato a Lugo, ma da cui ha preso le distanze, di Avanza País, e Aníbal Carrillo, per lo schieramento dell’ex presidente Frente Guasú. Cartes guida al momento i sondaggi con il 37,3%, seguito da Alegre con il 30,3%; terzo Ferreiro con il 9,5%; Carrillo è solo all’1,9%.

Il Tribunale supremo della giustizia elettorale autorizza fino al 18 aprile la propaganda politica già cominciata per le strade dal mese scorso. Otto osservatori elettorali sudamericani provenienti da Argentina, Cile, Colombia, Ecuador, Uruguay e Perù sono già arrivati nella capitale per preparare la loro missione; per decisione del presidente Franco la delegazione dell’Unasur (Unione delle nazioni sudamericane), che ha sospeso il Paraguay dopo la deposizione di Lugo, non avrà status ufficiale, pur essendo stata invitata espressamente dal Tribunale elettorale.

Il 21 aprile i paraguayani saranno chiamati a scegliere oltre al presidente e al vice presidente 45 senatori, 80 deputati, deputati del Parlasur e consiglieri dipartimentali il cui numero varia in base alla regione e 17 governatori, uno per ciascun dipartimento territoriale.

(Repubblica Democratica del Congo) SEMPRE PIÙ SFOLLATI IN NORD KIVU, CRESCE INSICUREZZA IN ITURI (15:48)

Hanno provocato una nuova ondata di sfollati gli scontri verificatisi nelle scorse settimane in più zone della ricca e vasta provincia mineraria del Nord Kivu, dove l’Ufficio di coordinamento umanitario dell’Onu (Ocha) ha censito 810.000 sfollati interni. “I conflitti armati ricorrenti nella provincia costringono numerose famiglie a scappare dalle proprie case in cerca di un posto più sicuro” ha costatato la rappresentanza locale dell’Ocha. La stessa fonte ha riferito all’emittente locale Radio Okapi che gli spostamenti maggiori riguardano i territori di Walikale, Lubero e Rutshuru.

 Nella prima area le popolazioni di Nyamilingi e Lowa sono fuggite a causa di accese tensioni tra miliziani Raïa Mutomboki e Forze armate regolari congolesi (Fardc), in seguito all’arresto di un comandante del gruppo di autodifesa in lotta contro i ribelli ruandesi delle Forze democratiche di liberazione del Rwanda (Fdlr). A sud del territorio di Lubero, in particolare nelle località di Taliham Musuku, Muhirimbo e Lunyasenge, centinaia di persone sono state messe in fuga da scontri tra due gruppi Mayi Mayi in lotta dallo scorso gennaio per il controllo dell’asse tra Kiwanja e Nyamilima, importante via di transito per il commercio tra i territori di Lubero e Rutshuru con l’Uganda. La terza zona dove si registra il maggior numero di sfollati è quella compresa tra Rumangabo, Kibumba, Rugari, Katale e Kanyaruchinya, dove da più di tre settimane si scontrano due fazioni rivali del Movimento del 23 marzo (M23). La situazione potrebbe migliorare dopo il cessate il fuoco decretato dall’ala di Sultani Makenga, la fuga nel vicino Rwanda di numerosi uomini del gruppo legato a Jean-Marie Runiga ma soprattutto la resa a Kigali del capo ribelle Bosco Ntaganda, ricercato dalla Corte penale internazionale.

 La scorsa settimana è stato il governatore del Nord Kivu, Julien Paluku, a lanciare l’allarme per una nuova “catastrofe umanitaria”, denunciando il fatto che sul terreno “un milione di sfollati di guerra vive senza assistenza (…) rischiamo di contare migliaia di morti nei campi disseminati qua e la”.

Ma la situazione dal punto di vista della sicurezza “è altrettanto inquietante in Ituri” ha dichiarato il ministero dell’Interno della Provincia Orientale, Hubert Pierre Moliso, riferendo all’emittente ‘Radio Okapi’ di un incremento degli omicidi, attacchi a mano armata, saccheggi, incendi e minacce ad agenti dello Stato e operatori economici. In Ituri sono particolarmente attivi i miliziani delle Forze di resistenza patriottica dell’Ituri (Frpi) di Cobra Matata nel territorio d’Irumu e quelli di Morgan, nel territorio di Mambasa.

(Liberia) CHIESE DIVISE SULLA PETIZIONE PER UNO “STATO CRISTIANO” (16:25)

I rappresentanti di diverse Chiese hanno presentato una petizione nella quale chiedono ai deputati di emendare la Costituzione per trasformare la Liberia da Stato laico a “Stato cristiano”: lo dicono fonti della MISNA a Monrovia, sottolineando i rischi che questa scelta comporterebbe per il dialogo con la minoranza musulmana.

Secondo le fonti, la petizione è stata consegnata al termine di un corteo che ieri ha attraversato il centro della capitale. La manifestazione è stata organizzata da varie Chiese, anzitutto pentecostali ed evangeliche, ma non ha potuto contare sull’adesione del clero e dei vescovi cattolici.

“La Chiesa cattolica – dicono alla MISNA – è molto rispettosa di tutte le fedi e tiene in particolare considerazione l’esigenza del dialogo con i musulmani”. Secondo le fonti, al “rispetto” e alla “cautela” è improntata anzitutto la linea tenuta da monsignor Lewis Jerome Zeigler, arcivescovo di Monrovia e presidente della Conferenza episcopale della Liberia.

Con la petizione si chiede ai deputati di emendare l’articolo 91 della Costituzione, in vigore dal 1986. In questo testo si afferma che in Liberia “nessun gruppo religioso avrà privilegi” e si ribadisce l’impegno dello Stato in favore della “tolleranza religiosa”. Le Chiese promotrici dell’iniziativa ritengono necessario tornare alla formulazione contenuta nella Carta fondamentale entrata in vigore con la nascita della Liberia, nel 1847. Un testo modellato sulla Costituzione statunitense, che vietava “privilegi esclusivi” o “trattamenti preferenziali” a favore di “un gruppo cristiano” su un altro.

La Liberia è uno dei tanti paesi dell’Africa occidentale dove la popolazione è divisa tra cristiani, musulmani e seguaci di religioni tradizionali. Secondo dati risalenti al 2010, a professare l’islam è circa il 12% degli abitanti. I cristiani, considerando i fedeli delle diverse Chiese, costituiscono la maggioranza. La presenza dei cattolici è stimata attorno al 6%.

(Centrafrica) RIBELLI MINACCIANO DI RIPRENDERE LE ARMI, BANGUI INVITA AL DIALOGO (16:55)

“L’ultimatum è terminato, riprenderemo le armi (…) Chiediamo alla Francia di esercitare pressioni sul presidente Bozizé affinché rispetti gli accordi di Libreville. E’ lui che può riportare la pace ma per ora ci riporta alla guerra”: con queste parole uno dei capi militari della coalizione Seleka, il colonnello Djouma Narkoyo, ha annunciato l’intenzione dei ribelli di riprendere la propria offensiva sul terreno dopo la mancata risposta di Bangui alle richieste avanzate domenica. Sono ancora nelle mani degli insorti cinque ministri del governo di unità nazionale, tutti membri della Seleka, che nel fine settimana sono andati a Sibut, 160 km dalla capitale, per negoziare con i ribelli.

 Questi hanno consegnato ad un altro esponente dell’esecutivo un elenco di rivendicazioni da attuare entro 72 ore che sollecitava, tra le altre cose, la liberazione dei prigionieri politici, il ritiro delle truppe straniere dispiegate in Centrafrica – ugandesi e centrafricane – e la rimozione dei posti di blocco della polizia e dei sostenitori di Bozizé a Bangui. “Eppure ancora stamattina siamo stati informati di nuovi arresti nella capitale da parte delle Forze armate centrafricane (Faca)” ha proseguito Narkoyo. Ieri la Seleka ha accusato il potere di “preparare un nuovo attacco dopo aver fatto arrivare due blindati a Damara (centro)”, località protetta dalle forze dell’Africa centrale, avvertendo però che “anche noi prendiamo le nostre disposizioni, ci stiamo organizzando”.

Finora il governo ha condannato il gesto della ribellione: “Il sequestro dei ministri del governo di unità nazionale sta creando un ulteriore problema da risolvere” ha detto Crépin Mboli Goumba, portavoce dell’esecutivo, aggiungendo che “auspichiamo il dialogo e la pace, ora aspettiamo per vedere la sua disponibilità”. Sul rischio di una ripresa dell’offensiva armata, Goumba ha espresso la speranza che “i nostri fratelli della Seleka abbiano anche loro la preoccupazione di risparmiare il nostro popolo da nuove sofferenze”.

 In realtà dalla firma degli accordi di pace di Libreville lo scorso 11 gennaio, con la mediazione dei paesi dell’Africa centrale, sul terreno sono continuati gli attacchi a danni di più località delle regioni settentrionali, centrali ed orientali del paese. Gli episodi sono stati attribuiti ad elementi dissidenti della Seleka (alleanza in lingua sango), una coalizione nata lo scorso agosto sulla scia di vecchie formazioni ribelli della Convenzione dei patrioti per la giustizia e la pace (Cpjp), la Convenzione dei patrioti della salvezza e del Kodro (Cpsk) e l’Unione delle forze democratiche per il raggruppamento (Ufdr). Nelle scorse settimana hanno preso il controllo di Rafaï, Bangassou, Gambo, la zona diamantifera di Dimbi, la città di Kembé (centro-sud), ma anche Kouango, Mobaye (sud-est) e Sida (nord), con gravi conseguenze umanitarie e sulla vita economica del paese.