Il momento dell'oro (Demostenes Floros, Limes online, 4 marzo 2013)
A febbraio, i mercati del greggio e dell’oro hanno registrato una marcata volatilità.
Partiamo dal greggio: il Brent ha inizialmente proseguito il trend rialzista con cui si era aperto il 2013 sino a sfiorare i 119$/b, per poi invertire bruscamente la rotta attestandosi attorno ai 111$/b. Nello stesso tempo, il Wti - dopo aver toccato il massimo di 98,5$/b (30 gennaio) - è drasticamente calato a 91$/b. Allo stesso modo, il prezzo dell’oro, dalla metà di febbraio in poi, è scivolato fin sotto i 1560$/oncia (minimo da luglio 2012) e successivamente ha oscillato attorno a quota 1600$/oncia.
I fondamentali del mercato petrolifero segnalano un’offerta stabile: a dicembre, le scorte dei paesi dell’Opec (2,7 miliardi di barili) hanno superato la media degli ultimi 5 anni mentre negli Stati Uniti, a febbraio, esse hanno raggiunto i massimi da luglio 2012 (376,4 milioni di barili). Secondo i dati dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), la domanda mondiale rallenterà ulteriormente la propria tenue crescita: infatti, nonostante a gennaio la Cina abbia incrementato le proprie importazioni a 5,9 milioni di barili al giorno (b/g), le stime per il 2013 sono state di nuovo riviste al ribasso (90mila b/g in meno), e i consumi mondiali previsti sono stati stimati a 89,7 milioni di b/g.
Il crollo dei prezzi del petrolio, così come quelli dell’oro, potrebbe essere la diretta conseguenza delle divergenze emerse il 20 febbraio all’interno dell’Open Market Committee, l’organo esecutivo della Federal Reserve, circa la conduzione della politica monetaria. Dai verbali infatti emergerebbe che una parte dei governatori ritiene necessario interrompere anticipatamente il quantitative easing.
Se così fosse, diminuirebbe la liquidità a disposizione degli speculatori per investire nel mercato delle commodities, facendo così venir meno uno dei fattori che più ha contribuito, nel recente passato, ad aumentare il prezzo delle materie prime. Inoltre, gli investitori potrebbero giudicare meno necessario il ricorso all’oro al fine di proteggersi dall’eventuale rischio inflazione.
Per quanto riguarda il metallo prezioso, è però necessario osservare che, nel 2012, la domanda totale (4405,5t) è diminuita del 4% a causa del calo della domanda dei consumatori, ma non di quella degli investitori istituzionali e soprattutto delle banche centrali (su tutti, quelle dei Brics). Quest’ultime, secondo il World Gold Council, hanno infatti acquistato 534,6t di oro, un incremento del 17% rispetto al 2011, il massimo dal 1964.
Tale aspetto qualitativo non va affatto trascurato per due motivi. Da un lato mette in luce come sia sempre più nutrito il gruppo di coloro che non considerano più il dollaro l’incontrastata valuta di riferimento del commercio internazionale, nonché la principale riserva di valore delle banche centrali. Dall’altro potrebbe sottintendere ad un rinnovato ruolo dell’oro in un sistema monetario internazionale riformato.
Da ultimo, è opportuno precisare che i prezzi delle materie prime rimangono comunque ancora alti in conseguenza delle forti tensioni geopolitiche presenti soprattutto in Medio Oriente e nel Sahel: di fatto, non si può escludere che la guerra in Siria si propaghi anche nel confinante Libano mentre le truppe francesi - già intervenute in Costa d’Avorio, Libia e Mali - hanno deciso di sorvegliare le miniere di uranio del Niger, dalle quali la società pubblica Areva trae il 30% del combustibile necessario alle centrali nucleari di Parigi.
Nel corso del IV trimestre del 2012, il pil congiunturale degli Usa è aumentato dello 0,1%, quello inglese è rimasto piatto (0%) mentre la Germania ha segnato un -0,6%. L’output dell’Italia è invece diminuito dello 0,9% (nel 2012, -2,2%): si tratta del sesto trimestre consecutivo caratterizzato dal segno meno, un evento che non si verificava dal 1992-'93.
Nella lettera inviata il 13 febbraio dal commissario Ue agli Affari economici e monetari Olli Rehn ai ministri finanziari dell’Eurozona e al presidente della Bce Mario Draghi si legge che “se la crescita dovesse deteriorarsi inaspettatamente, un paese potrebbe ricevere del tempo aggiuntivo per correggere il proprio deficit eccessivo, purché abbia fatto lo sforzo fiscale strutturale concordato”.
È complicato pensare che ciò possa avvenire in un contesto caratterizzato dalle politiche mercantiliste della Germania (nel 2012, il surplus estero ha superato un’altra volta il 6% del pil), alle quali si è aggiunta la politica di svalutazione competitiva della Francia, che ha aumentato l’iva sulle importazioni, ma non sulle esportazioni e tagliato il cuneo fiscale affinché le proprie imprese esportino a prezzi più bassi senza toccare i margini di profitto.
Siamo così sicuri che la moneta unica interessi ancora a qualcuno? L’esito “clownesco” delle elezioni italiane (l’euro ha accentuato il deprezzamento sul dollaro, ma il trend era in corso sin dall’ultima riunione della Fed del 31 gennaio) rischia di essere una scusa.
Non resta che cominciare seriamente a pensare alle possibili e, certamente non neutrali, vie di fuga.
(Demostenes Floros è un analista geopolitico ed economico. Ha collaborato con NE-Nomisma Energia.)