Il capro espiatorio degli F 35 (Michele Nones, AffarInternazionali, 5 marzo 2013)

06.03.2013 11:08

È passato solo un anno dal dibattito parlamentare sugli aerei militari F 35, durante il quale il governo ha comunicato la decisione di ridurre il numero dei velivoli che l’Italia intende acquistare da 131 a 90 e il Parlamento ha respinto le richieste di sospensione o cancellazione del programma. Ma la campagna elettorale ha riportato la partecipazione italiana al programma sotto i riflettori, trasformandola in una battaglia ideologica in cui tutti i colpi sono sembrati permessi.

Bisogna tornare ai tempi dello schieramento dei missili a Comiso per trovare toni altrettanto apocalittici, con la differenza che ora, nel tentativo di ottenere qualche percentuale di voti, molti leader, se non tutti, si sono dissociati dalle decisioni prese da tutti i governi degli ultimi quindici anni, promettendone una revisione.

Ombre cinesi
Il programma F 35 sembra, d’altra parte, un bersaglio perfetto:
- è in gran parte guidato e gestito dagli Stati Uniti (e questo attira il mai sopito sentimento anti-americano di certe aree della sinistra);
- è uno dei sistemi più costosi fra quelli di prevista acquisizione nazionale in questo decennio (e questo da spazio alle critiche di chi vorrebbe destinare ogni risorsa ai comparti civili e di chi vorrebbe, invece, fossero finanziati di più altri programmi militari);
- è un mezzo avanzato e complesso, ancora in fase di sviluppo (e questo consente di strumentalizzare le attuali limitazioni operative, pronosticandone un disastroso futuro e, quindi, un enorme spreco di risorse finanziarie);
- è un velivolo da attacco al suolo (e questo permette di presentarlo come un mezzo “offensivo”, dimenticando che è l’utilizzo che ne determina le finalità e che l’Eurofighter non è certamente da meno);
- è un programma che cerca di contenere i costi puntando sulla competizione e, quindi, non assicura la certezza dei ritorni industriali come negli altri programmi internazionali (e questo ha provocato la reazione critica di alcune imprese, che in parte è però giustificata perché non sono sempre garantite dagli americani condizioni di parità nel rilascio delle informazioni);
- è un programma che ha infranto il sogno, obiettivamente insostenibile, di una versione da attacco al suolo dell’Eurofighter ed è contemporaneo alla riduzione dell’ultimo lotto di questo intercettore, dovuta alla necessità di contenere le spese (e tutto questo ha scatenato i suoi interessati sostenitori).

Ovviamente non poteva mancare il fantasma del complesso militare-industriale americano, con appendici italiane, che avrebbe provocato l’esclusione dalle liste dei candidati parlamentari che avevano criticato il programma (smentita poi dai risultati elettorali) e a rimuovere i vertici industriali poco disponibili (come se, invece, in tutti questi casi non vi fossero ben altre ragioni).

Non c’è aspetto del velivolo che non sia stato criticato: inutile, inefficace, ambizioso, costoso, complicato, vulnerabile, pericoloso, mal progettato, ecc. E lo stesso per il programma: insoddisfacente nel coinvolgimento industriale, ininfluente sull’occupazione, destinato al fallimento, con costi fuori controllo, superfluo, ecc. Contro questo tiro al bersaglio le risposte del governo, del ministero della Difesa e dell’industria sono risultate inadeguate e, a volte, soprattutto in passato, un po’ ingenue.

La consapevolezza di essere nel giusto non giustifica la sottovalutazione dei rischi, né degli avversari di questo programma. Fin dall’inizio si sarebbe dovuto stabilire una efficace e coordinata strategia di comunicazione fra tutti gli attori militari, governativi e industriali, garantendo un continuo flusso di informazioni coerenti. Invece, ancora una volta, si è andati avanti in ordine sparso e con troppa improvvisazione, anche per contrasti interni sia al mondo militare che industriale.

Adesso bisognerebbe cercare di limitare i danni della campagna di disinformazione che è stata condotta, favorendo, invece, una serena riflessione che può anche portare a decisioni diverse, ma con la consapevolezza delle relative implicazioni e dei relativi costi.

In forma schematica il problema F 35 può essere così rappresentato:

1. I velivoli per l’attacco al suolo servono per colpire obiettivi terrestri o navali fissi o in movimento. Fra il resto, sono serviti all’Italia per colpire obiettivi militari durante l’intervento in Kuwait, Kosovo, Iraq, Afghanistan e Libia a protezione della popolazione civile, delle loro nuove forze di sicurezza e dei nostri uomini. Potrebbero un domani servire per proteggere anche la nostra comunità.
Un paese che vuole avere una minima capacità di difesa non può rinunciarvi. Ma, più in generale, sembra essersi creata un’eccessiva confusione dei ruoli perché spetta ai tecnici indicare la strumentazione loro necessaria. Non si può indicare ai Vigili del fuoco di quali mezzi devono dotarsi per spegnere gli incendi. E non lo si dovrebbe fare nemmeno con i militari italiani. Quello che bisogna dire loro è quali sono le risorse finanziarie disponibili e, ovviamente, confrontarsi con loro sulla relativa acquisizione ed utilizzo. In quest’ottica, trattandosi della nostra sicurezza, per di più riferita ad uno scenario lontano nel tempo e imprevedibile, sarebbe bene essere molto prudenti e previdenti.

2. L’Aeronautica dovrà mettere a terra nel prossimo quindicennio 236 velivoli utilizzabili per l’attacco al suolo (Amx, Tornado) e la Marina 18 velivoli imbarcati AV-8B. I tre nuovi velivoli europei disponibili (Eurofighter, Rafale e Gripen) sono intercettori, con solo limitate capacità di attacco al suolo: l’Europa avrebbe potuto sviluppare un suo velivolo partendo da queste esperienze, ma non ha avuto la volontà di farlo destinandovi le necessarie risorse. Altri velivoli americani sono, invece, più vecchi o usati. L’alternativa dei velivoli armati non pilotati non è ancora realistica e pone diversi dubbi: i mezzi già operativi sono americani e fino ad ora l’Italia non ha ricevuto il relativo armamento (e non va dimenticato che il loro utilizzo è legato alla disponibilità di trasmissione satellitare dei dati che è anch’essa controllata dagli americani); il loro eventuale impiego apre, inoltre, delicate questioni politiche e militari.
L’unico velivolo di nuova generazione (con caratteristiche stealth) che sarà disponibile nei prossimi anni è, quindi, l’F-35 e, in particolare, sarà il solo ad avere una versione imbarcabile sulle nostre portaerei. Quanto al numero, è già stato ridotto da 131 a 90 (75 per l’Aeronautica e 15 per la Marina), allineandolo globalmente a quello degli Eurofighter, in modo da avere un equilibrato bilanciamento fra i due velivoli che, alla fine, comporranno tutta la flotta aerea da combattimento nazionale (contro i quattro attuali). Per i prossimi decenni questa flotta dovrà essere in grado di reggere il confronto con la nuova generazione di caccia invisibili russi (T-50) e cinesi (J-20) che a breve invaderanno il mercato dell’export e saranno disponibili per molti paesi critici.

3. Il programma dovrà essere finanziato nell’ambito delle risorse destinate alla Difesa. L’Italia spende per la difesa meno dell’1% del Pil, una delle più basse percentuali al mondo. Già sono stati decisi significativi tagli e riduzioni al fine di poter mantenere uno strumento militare credibile e sostenibile. Il programma di acquisizione dell’F 35 è molto proiettato in avanti, a partire dagli ultimi anni di questo decennio, sia per tener conto della attuale difficile situazione finanziaria del nostro paese, sia per poter acquisire i velivoli quando, grazie all’avviata produzione di serie, il costo unitario sarà abbassato e il velivolo sarà più maturo operativamente. L’attuale prezzo riguarda solo i primi esemplari, ma, siccome sono pochissimi, ogni eventuale risparmio risulterebbe insignificante nei prossimi anni.
Non c’è, quindi, un “tesoretto” disponibile e riutilizzabile per altri fini nella cassaforte della Difesa, né nel Bilancio dello Stato. Le quote annuali di finanziamento del programma, attualmente previste, sono già inferiori a quelle di altri programmi nazionali in corso. Eventuali ulteriori risparmi si potrebbero realizzare nella prossima legislatura, ma al prezzo di compromettere la nostra sicurezza e la nostra industria aerospaziale. In ogni caso va tenuto presente che più tardi verrà avviata la produzione in Italia e più tardi si potrà proporre il nuovo stabilimento di Cameri come centro di manutenzione per gli F 35 utilizzati o dislocati in Europa e nel Mediterraneo (e questa attività può rappresentare il maggiore business nel futuro della nostra industria).

4. Mantenere una capacità tecnologica e industriale nel settore della difesa e, in particolare, nei velivoli militari è importante sotto diversi profili. A livello militare significa padroneggiare e utilizzare meglio la tecnologia e poter supportare con maggiore autonomia i propri equipaggiamenti e, in parte, poterli mantenere aggiornati. A livello industriale, per un paese come l’Italia che ha ormai solo pochi settori a tecnologia avanzata, significa avvantaggiarsi delle connesse innovazioni di prodotto e di processo e della formazione di qualificato personale a favore dell’intero sistema industriale. Dopo l’ormai prossima conclusione del programma Eurofighter, il futuro dell’industria aeronautica militare si gioca sulla partecipazione all’F 35. Anche sul piano sociale il problema non è quanti posti in più porterà il programma F 35, ma quanti posti saranno salvati di quelli che andranno persi con la fine della produzione dell’Eurofighter e la fine della manutenzione dei vecchi velivoli.

Per queste ragioni le Forze armate, il ministero della Difesa e il governo hanno voluto assicurare la partecipazione dell’industria italiana al programma, anziché aspettare e poi comperarli negli Stati Uniti. Proprio in questi giorni Alenia Aermacchi ha siglato un contratto per i primi 130 set di ali per un valore di oltre 900 milioni di euro. Altri ne seguiranno insieme ad altri equipaggiamenti e apparati, coinvolgendo decine di imprese italiane. Certo, non tutte le nostre richieste sono state esaudite, niente è garantito, su alcuni segmenti non siamo quasi riusciti ad entrare (elettronica e motoristica). Ma non vi sono alternative: governo, Forze armate e industria devono continuare a lottare, giorno dopo giorno, per avere maggiori ritorni industriali.

Quanto al confronto con altri programmi internazionali basati sul principio cost share/work share, va evidenziato che producono extra-costi e extra-tempi non più sostenibili (tanto è vero che alcuni grandi paesi europei sono caduti nella tentazione di cercare accordi bi o trilaterali). Nel caso dell’Eurofighter i ritorni industriali corrispondono al 21%, nel caso dell’F 35 dipendono dalle capacità della nostra industria di essere competitiva, ma potenzialmente potrebbero essere molto più alti. Finora, tenendo in considerazione gli effetti del contratto appena firmato da Alenia, le industrie nazionali hanno già accesso a contratti con Lockheed valutati in oltre due miliardi di euro, che rappresentano l’80% di quanto investito finora dal nostro paese.

Michele Nones è il Direttore dell’Area Sicurezza e Difesa dello IAI.