Egitto. I Black bloc e le “ragioni” della violenza (Anna Toro, ossevatorioiraq.it, 6 marzo 2013)

06.03.2013 15:23

“Se voi non ci lasciate sognare, noi non vi permetteremo di dormire”. La frase, apparsa di recente su un muro del Cairo, riflette appieno la linea d'azione dei Black bloc egiziani che, in un paese sempre più infiammato dalle violenze e dagli scontri di piazza, iniziano a raccogliere un certo consenso. 

I tempi degli slogan sulla non violenza cantati a gran voce in piazza Tahrir sembrano ormai lontani e, causa il perpetrarsi degli abusi da parte del governo e delle forze dell'ordine, sempre più egiziani stanno cominciando a dubitare dell'efficacia di un'opposizione pacifica.

E' in questo clima di frustrazione e di poche (o nessuna) alternative che i Black bloc hanno fatto la loro comparsa anche in Egitto, durante il secondo anniversario della caduta dell'ex presidente Hosni Mubarak.

Se all'inizio qualcuno pensava che sarebbe stato un fenomeno giovanile transitorio, i fatti stanno dimostrando il contrario, e questi ragazzi mascherati e vestiti di nero, armati di molotov, pietre e bandiere anarchiche come i loro omologhi americani ed europei, continuano a presenziare nelle strade e nelle piazze, con azioni che vanno dalla guerriglia urbana alla difesa dei manifestanti.

La loro prossima iniziativa è prevista per questo sabato [9 Marzo], quando si raduneranno a Mansoura, città del Delta del Nilo, dove gli scontri si stanno intensificando giorno dopo giorno.

“Saremo lì non per partecipare alla disobbedienza civile, ma per proteggere il sangue del popolo e vendicare i martiri caduti” scrivono in un comunicato diffuso su Facebook e rivolto alle autorità.

“Vi promettiamo che vedrete qualcosa di totalmente nuovo. Ma siete voi che ci avete costretti a tutto questo. La nostra anarchia sta arrivando”.

Intanto, il dibattito su chi siano realmente questi Black bloc egiziani prosegue. Mentre i ragazzi perseverano nel rifiuto di parlare con i media facendo di questa indeterminatezza, così come dell'anonimato, uno dei loro punti di forza sull'esempio dei loro omologhi occidentali.

Il governo continua a definirli un “gruppo di teppisti”, accusandoli di “violenza sistematica e criminalità organizzata nel paese”, mentre altri li descrivono come un movimento pieno di infiltrati e sostenitori del vecchio regime di Mubarak.

Altri ancora pensano che dietro ci sia lo stesso Morsi, che li userebbe come strumento per screditare l'opposizione.

Secondo i manifestanti, invece, l'organizzazione sarebbe semplicemente una risposta consequenziale alla violenza esercitata dai Fratelli musulmani, dalla polizia e dall'esercito.

L'unica cosa che si sa per certo è quello che non sono: ovvero un movimento politico, né sportivo (in riferimento agli ultras, anch'essi fortemente presenti nelle piazze in difesa dei manifestanti), né tanto meno religioso.

 

L'incarnazione di una “tattica”

Secondo un'analisi, “i Black bloc rappresentano una tattica, non un'organizzazione o l'espressione di una particolare ideologia. Tattica che non ha nemmeno avuto origine con questi anarchici” dato che la loro presenza in Egitto, e più in generale nel mondo arabo, risale alla fine dell'Ottocento.

Inoltre i Black Bloc non condividono esattamente tutti gli scopi della loro controparte internazionale, e le analogie si fermano spesso alle tattiche (appunto) e alla semplice volontà di rovesciare l'attuale regime.

Ma è soprattutto quando quelli americani parlano di lotta al capitalismo, che la condivisione da parte dei loro amici egiziani non è scontata.

“I Black Bloc egiziani mostrano una vasta gamma di idee che spaziano dall'anarchia al liberalismo sino al marxismo trotzkista” spiega su Al Arabiya Ayman El-Dessouki, ricercatore e assistente di Scienze Politiche presso l'Università del Cairo.

“Il gruppo rappresenta gli elementi più radicali tra i rivoluzionari egiziani” e questo, secondo lo studioso, potrebbe spiegare perché ha sostenitori “provenienti da partiti liberali e di sinistra, così come tra gli attivisti dei diritti umani”.

Lo stato egiziano si è affrettato a metterli fuori legge come se fossero un vero e proprio partito e, altrettanto puntualmente, ha accusato i suoi membri di una “comica quanto improbabile collusione con i sabotatori sionisti”. Collusione immediatamente negata da Israele.

A questo si aggiungano le minacce da parte dei gruppi islamisti, come al-Gama'a al-Islamiyya, che ha addirittura invocato la pena della crocifissione.

“Dio ci ordina di uccidere, crocifiggere o tagliare le mani e i piedi di coloro che diffondono la corruzione sulla terra –  ha detto il mufti Abdel Akhar Hammad, riferendosi ai Black bloc e citando un versetto del Corano –, il presidente non deve fare altro che darci l'ordine”.

Da segnalare anche la Jihad Organization, che li accusa di essere finanziati dall'estero e che per questo vorrebbe ucciderli (mentre i membri del Fronte nazionale di Salvezza, la coalizione che raggruppa i principali partiti d'opposizione dovrebbero essere "accusati di istigazione alla rivolta e arrestati”).

Il gruppo è però sfuggente ed agile, e per le forze dell'ordine non è facile identificarne i membri.

 

“L'unico modo”

In ogni caso, l'immediata demonizzazione dei Black bloc da parte dello Stato e la loro altrettanto fulminea popolarità, sono una chiara indicazione di come più persone in Egitto condividono con sempre maggiore frequenza l'idea che le proteste politiche assumano contorni violenti.

Come racconta la giornalista di al-Monitor Sarah el-Sirgany, perfino diversi cittadini conservatori, che hanno sempre evitato e condannato le proteste negli ultimi due anni, hanno ammesso di vedere ormai nella violenza di quel tipo l'unico modo per spodestare il presidente Muhammad Morsi.

E dire che proprio per il presidente, i manifestanti in nero erano sembrati l'occasione perfetta per dividere l'opposizione.

Ne aveva parlato durante la sua visita di febbraio a Berlino, dove aveva dichiarato c'era una “grande differenza tra i rivoluzionari e i manifestanti pacifici e i Black bloc”, aggiungendo che "il sistema penale egiziano si sarebbe occupato del problema".

E invece, da minaccia per l'ordine pubblico ed “esercizio di stupidità adolescenziale”, ora il popolo sta iniziando a vederli come parte integrante della resistenza in piazza.

Il paese è ormai entrato in una sorta di circolo vizioso: “Il blocco di strade e ferrovie e degli edifici governativi sono solitamente classificati come atti di violenza da parte dello Stato, e questo firnisce al governo la giustificazione per rispondere con la forza alimentando ancora di più gli scontri” spiega ancora Sarah el-Sirgany.

Allo stesso tempo però la violenza, secondo alcuni, sembra essere diventata l'unico sistema per “disturbare” davvero il regime al potere: “Per lo meno – termina la giornalista, citando l'umore attuale dei manifestanti – costringe il governo ad ascoltare”.