(Economia/Finanza/Settimana finanziaria) Il mix di incertezze che pesa sull'Europa (Walter Riolfi, Sole 24 Ore, 16 febbraio 2013)

16.02.2013 16:42

A giudicare dal fiorire d'interesse sulle elezioni italiane, un po' da tutto il mondo e persino dagli ambienti più conservatori della finanza americana, si direbbe che il nostro Paese si sia guadagnato un ruolo di primo piano. In realtà gli investitori sono solo preoccupati che dalle urne esca una maggioranza che rimetta in discussione il Fiscal compact in Eurozona e che si riacutizzi la crisi dei debiti sovrani. Fra poco più di una settimana sapremo come andranno le cose e intanto ci si può consolare che sia quasi arrivata alla fine questa tediosa e irritante, per le troppe vacue promesse, campagna elettorale. Ci accompagnerà invece per altri mesi la cosiddetta guerra delle valute e le schermaglie tra le diverse autorità monetarie e politiche che la stanno accompagnando. Già si può notare che la guerra s'è tramutata in farsa, poiché all'incontro del G20 tutti hanno, con evidente ipocrisia, concordato che la guerra è finita semplicemente perché non c'è mai stata. Infine resta il tanto enfatizzato tema della «grande rotazione» dai bond alle azioni. Ma l'impressione che si ricava è che questa presunta rotazione sia più nella fantasia degli operatori che nella realtà delle cose.
Elezioni italiane
Davanti alla prospettiva di un sorpasso della coalizione guidata da Silvio Berlusconi, Btp e Piazza Affari hanno cominciato a indietreggiare. Succedeva fino a lunedì. Il giorno successivo, i mercati erano già più sereni: perché si sarebbe arrestata la rimonta del Pdl, secondo i sondaggi che circolano tra gli operatori, o semplicemente perché s'è rafforzata la convinzione che dalle elezioni uscirà una maggioranza composita tra Luigi Bersani e Mario Monti, come sono propensi a credere in tanti e come scrivono gli economisti di UniCredit e Mizuho International. Il paradosso è che persino gli ambienti più conservatori della finanza americana, per i quali puzza di socialismo ogni gesto e ogni idea che si agiti in Eurozona, sono disposti ad accogliere con favore un'affermazione del centro sinistra. La ragione sta solo nel timore che una maggioranza populista produca disastri peggiori nel bilancio dello Stato.
Guerra valutaria
Al gruppo dei G20, che con vuota enfasi ha stabilito che le politiche fiscali e monetarie debbano «essere usate solo per scopi domestici» e non per muovere le valute, con serafica naturalezza Ben Bernanke ha risposto che gli Stati Uniti, «in conformità alle decisioni del G20, stanno usando gli strumenti di politica domestica unicamente per realizzare obiettivi domestici». E Christine Lagarde, presidente del Fmi, ha osservato che i «ricorrenti discorsi di una guerra monetaria sono eccessivi». E così nessuno tra i leader delle grandi nazioni ha avuto il coraggio di accusare il Giappone o gli Usa d'aver fomentato una guerra valutaria, semplicemente perché tutti, in qualche modo, tentano di manipolare il cambio a proprio vantaggio. Con armi spuntate hanno provato a farlo anche in Eurozona attraverso le accuse di molti politici, soprattutto francesi, e con le parole assai misurate di alcuni esponenti della Bce: ultimo, due giorni fa, il vice presidente Constancio, lasciando trapelare che in casi estremi la banca centrale potrebbe contemplare un tasso negativo sui depositi. Questo è bastato ad arrestare l'ascesa dell'euro, sceso fino a 1,33 sul dollaro e risalito a 1,336 nel pomeriggio di ieri, una volta compreso che le velleità di disinnescare il conflitto valutario s'erano tradotte in farsa.
Quale rotazione?
In realtà, l'euro s'era indebolito più per ragioni economiche che per la politica monetaria. Il Pil del quarto trimestre s'è rivelato peggiore delle attese in Eurozona, Germania compresa: così come una delusione è stato quello britannico e giapponese e così come era stato per quello americano. Eppure le Borse corrono come se fossimo nel pieno di una grande ripresa economica: quanto meno Wall Street, cresciuta del 6,6% da inizio anno, metà di quanto gli analisti s'aspettano per l'intero 2013, mentre lo Stoxx euro s'è limitato a un più consono rialzo dell'1,3%. La grande rotazione dai bond verso le azioni funziona in piccola parte negli Usa, visto che non si vede un significativo deflusso dai Treasury, ed è del tutto assente in Europa, considerando che il rendimento del Bund decennale è sceso al l'1,65% (ben sotto l'inflazione) e che quello del titolo a due anni, allo 0,18%, è di ben 57 centesimi sotto il tasso Bce.