Brevi dal mondo - Misna (20 dicembre 2013)

20.12.2013 13:33

- (Centrafrica). A UNIONE AFRICANA COMANDO MISSIONE INTERNAZIONALE

Con una cerimonia ufficiale tenuta alla base militare di M’Poko, all’aeroporto di Bangui, la Forza dell’Africa centrale (Fomac), dispiegata nel paese nel 2008, ha formalmente trasferito il comando delle operazioni alla Missione internazionale di sostegno al Centrafrica (Misca), varata dall’Onu, sotto la guida dell’Unione africana (Ua). La Misca è attualmente costituita da 3700 soldati messi a disposizione da più paesi – tra cui Burundi, Ciad e Repubblica del Congo – ma a pieno regime la forza dovrebbe raggiungere le 6000 unità. La forza panafricana viene sostenuta da 1600 militari francesi dell’operazione Sangaris, impegnati dal 9 dicembre in vaste operazioni di disarmo delle milizie nella capitale e nel nord-ovest.

Un duro monito ai gruppi armati è già arrivato dal capo della Misca, il generale congolese Jean-Marie Michel Mokoko, avvertendo che “il mandato Onu è chiaro e senza ambiguità: autorizza i soldati all’uso della forza nei confronti di chi è coinvolto nelle violenze interreligiose”. Prendendo il testimone dell’autorità militare finora esercitata dai paesi della Comunità economica dell’Africa centrale, Mokoko ha sottolineato che “bisogna evitare che il paesi continui a sprofondare in una deriva che porta inevitabilmente alla miseria e alla divisione”. Il comando militare della Misca è stato invece affidato al generale camerunense Martin Tumenta Chomu, mentre la direzione della componente di polizia della missione è sotto l’autorità di un gabonese, il colonnello Patrice Ostangue Bengone.

Ma solo poche ore dopo il trasferimento del comando, i soldati della Misca sono stati bersagliati da uomini armati che hanno aperto il fuoco contro veicoli militari, ferendo gravemente sei ciadiani nei pressi dell’aeroporto. In serata il quartiere settentrionale di Gobongo è stato il teatro di scontri tra miliziani Anti-Balaka ed ex ribelli Seleka, che secondo testimoni locali indossavano divise delle forze regolari. La situazione si sarebbe normalizzata dopo l’intervento delle truppe francesi, ma finora non è stato diffuso alcun bilancio di vittime. Fonti locali hanno denunciato la presenza di soldati ciadiani accanto agli uomini della Seleka.

A dare conferma ufficiale di una presenza “significativa” di elementi stranieri armati in Centrafrica è stato lo stesso primo ministro di transizione, Nicolas Tiangaye. “Una volta disarmati - ha detto il capo del governo in un’intervista al sito d’informazione Afrique Inside - i ribelli ciadiani e sudanesi devono essere rimpatriati dalle autorità del paese di origine. Non possono rimanere qui. Inoltre coloro che hanno commesso esazioni dovranno risponderne davanti alla giustizia nazionale o internazionale”. La posizione di N’Djamena è ambigua sin dall’inizio della crisi in Centrafrica, cominciata nel dicembre 2012. Nelle ultime ore le autorità ciadiane hanno deciso di aumentare il proprio contingente nella Misca da 350 a 850 uomini e hanno messo a disposizione due aerei caccia.

Intanto, alla luce del “deteriorarsi della situazione in Centrafrica” il governo del Camerun ha attivato un ponte aereo per rimpatriare i propri concittadini residenti nel paese vicino. Negli ultimi giorni un migliaio di persone è ritornato a Douala e altre 3500 si sono rifugiate alla rappresentanza diplomatica a Bangui in attesa del rimpatrio. La presenza camerunense in Centrafrica è stimata in 20.000 persone, che vivono per lo più nella capitale.

Sul versante diplomatico, stamattina la stampa centrafricana dà ampio risalto alla visita sorpresa a Bangui dell’ambasciatrice statunitense all’Onu Samantha Power e della vice segretario di Stato per l’Africa Linda Thomas-Greenfield. “I responsabili delle atrocità ne dovranno rendere conto: questo è un passaggio molto importante per prevenire nuove violenze o futuri cicli di violenza” ha insistito la Power.  Nella capitale è in corso anche un’altra missione, quella della rappresentante speciale del segretario generale Onu per i bambini e i conflitti armati. Leila Zerrougui e il segretario speciale sulla prevenzione dei genocidi, Adama Dieng, sono incaricati di valutare l’impatto del conflitto sulla popolazione civile, in particolare bambini e donne.

Secondo l’Onu, almeno 2,3 milioni di bambini sono coinvolti nella crisi armata e 3500 sono stati reclutati da milizie e ribelli. Al vertice dell’Unione europea in corso a Bruxelles, il governo francese sta invece cercando di ottenere un sostegno militare degli altri paesi membri. Il Belgio ha dato la propria disponibilità a dispiegare 150 soldati per “proteggere gli aeroporti”; anche la Polonia è pronta a inviare truppe. Il presidente François Hollande ha sottolineato che “serve un fondo europeo permanente” per far fronte al costo delle operazioni in Centrafrica.

- (Kenya). PROCESSO KENYATTA: PROCURATORE CPI CHIEDE RINVIO

Il procuratore della Corte Penale Internazionale (Cpi) Fatou Bensouda ha chiesto un rinvio del processo al presidente Uhuru Kenyatta, la cui apertura è prevista per il 5 febbraio, per consentire all’accusa di reperire nuove prove a carico dell’imputato. La Bensouda, convinta della validità del procedimento nei confronti del presidente, accusato assieme al suo vice William Ruto e ad altri due coimputati di crimini contro l’umanità, ha dichiarato che “in seguito alla rinuncia di due testimoni chiave l’impianto accusatorio rischia di non avere gli standard di evidenza necessari all’avvio del procedimento”.

La richiesta “eccezionale”, come l’ha definita la Bensouda, arriva dopo diversi rinvii dell’apertura del processo e la rinuncia di diversi testimoni provocata – secondo alcuni – dalle pressioni da parte dell’entourage degli stessi imputati.

Il processo al presidente keniano – primo nella storia ad un capo di stato in carica – è oggetto di un duro confronto tra la Cpi e l’Unione Africana che ne ha chiesto più volte il rinvio. Lo stesso governo di Nairobi vorrebbe che il dossier relativo alle violenze post-elettorali del 2008 per cui Kenyatta è alla sbarra assieme a Ruto – il cui processo all’Aia si è aperto il 10 settembre scorso – fosse restituito alla giustizia nazionale.

- (Somalia). MOGADISCIO RIPARTE DALLA BIBLIOTECA NAZIONALE

Un tempo ospitava manoscritti, saggi e opere letterarie di diverso genere, poi per anni, si è trasformata in un rifugio per decine di famiglie sfollate dalle proprie case da violenze e combattimenti. Presto la biblioteca nazionale di Mogadiscio potrebbe conoscere una nuova primavera: lo ha annunciato il governo centrale che ha varato i lavori per la ricostruzione dell’edificio-simbolo della cultura nella capitale somala, devastato dall’incuria e dai colpi di mortaio.

Questa mattina, alla conferenza stampa organizzata davanti alla biblioteca, erano presenti giornalisti e rappresentanti politici oltre a diversi intellettuali somali, tra cui Mohamed Dahir Afrah, noto scrittore e editorialista.

Secondo la direttrice del progetto, Zainab Hassan, i lavori di ristrutturazione dovrebbero durare circa sei mesi, per un costo complessivo di un milione di dollari. A finanziarlo, oltre allo stato, donazioni di privati e della società civile.

Già più di 20.000 libri sono stati donati dagli Stati Uniti mentre altri 60.000 dovrebbero presto arrivare dai paesi arabi. “Questo edificio avrà il compito di custodire la storia somala per le future generazioni” ha detto orgogliosa Hassan, aggiungendo che “dopo anni di guerra e privazioni, la sete di conoscenza dei cittadini somali è inesauribile”.

- (Costa d'Avorio). RITORNO ESILIATI PRO-GBAGBO, GARANZIE DAL GOVERNO

Revoca dei mandati di cattura spiccati dalla giustizia nazionale, sicurezza al ritorno e restituzione dei beni degli esiliati, in particolare le case occupate: sono le garanzie ottenute dalla delegazione del Fronte popolare ivoriano (Fpi, opposizione) al termine di un colloquio con il ministro dell’Interno, Hamed Bakayoko.

All’esito “incoraggiante” dell’incontro la stampa ivoriana dedica i titoli di apertura di oggi, precisando che circa 80.000 sostenitori dell’ex presidente Laurent Gbagbo sono ancora rifugiati in Liberia e in Ghana, paesi dove sono scappati nei mesi del braccio di ferro elettorale con l’attuale capo di Stato Alassane Dramane Ouattara, tra la fine del 2010 e la primavera del 2011. Finora a rientrare in patria sono state tra le 220.000 e le 300.000 persone.

“Un grande passo avanti è stato compiuto per il ritorno dei rifugiati. Abbiamo ottenuto impegni fermi dal ministro e garanzie sulla sicurezza, principale fonte di preoccupazione” ha dichiarato alla stampa Amani N’Guessan, ex ministro della Difesa a capo della delegazione dell’Fpi. Bakayoko ha invece sottolineato che “saranno i dirigenti politici del partito di Gbagbo a dover coordinare il rientro degli esiliati”.

Lo scorso 10 dicembre si è tenuto un altro incontro, il primo degli ultimi dieci anni, tra dirigenti dell’Fpi e del Raggruppamento dei repubblicani di Costa d’Avorio (Rdr, il partito di Ouattara), considerato un “primo passo” verso un dialogo permanente tra opposizione e maggioranza.

Nel complesso processo di riconciliazione nazionale avviato dopo la crisi politico-militare conclusa con 3000 morti, la questione del ritorno degli esiliati è cruciale ma anche quella di una giustizia equa e della partecipazione dell’Fpi alla vita istituzionale. Al centro del contenzioso tra la principale forza di opposizione e i partiti al potere ci sono le procedure giudiziarie aperte dalla magistratura ivoriana – congelamento dei beni, mandati di cattura internazionale e richieste di estradizione – considerate “di parte” e “politicamente motivate” dai pro-Gbgabo e da difensori dei diritti umani, che hanno più volte denunciato “una giustizia a due velocità”. Gbgabo è invece detenuto all’Aia da due anni, sospettato dalla Corte penale internazionale (Cpi) di crimini contro l’umanità.

Tra i casi più problematici c’è quello dell’ex “première dame” Simone Gbagbo, che Abidjan si rifiuta di estradare alla Cpi; dell’ex leader dei Giovani Patrioti Charles Blé Goudé, estradato da Accra lo scorso gennaio, e di Justin Koné Katinan, il portavoce in esilio di Gbagbo, che la giustizia ghanese si rifiuta di consegnare alla Costa d’Avorio, ritenendo i capi di accusa nei suoi confronti “politici”.