Brevi dal mondo - Misna (19 dicembre 2013)

19.12.2013 10:27

- (Colombia). BOGOTÁ, “REFERENDUM REVOCATORIO” SU SINDACO DESTITUITO

“Siamo pronti ad andare alle urne (…) Chiediamo alla popolazione di andare a votare per decidere del futuro di una Bogotá umana piuttosto che a decidere sia un funzionario amministrativo”: è l’appello lanciato da Gustavo Petro, il sindaco di Bogotá destituito nei giorni scorsi dal controverso procuratore generale Alejandro Ordóñez Maldonado. In visita negli Stati Uniti, in cerca di sostegni politici esterni alla sua decisione di non lasciare l’incarico da cui è stato sollevato, Petro ha accolto così il via libera del tribunale elettorale colombiano alla convocazione di un “referendum revocatorio” del suo mandato per determinare la sua sorte.

“Non c’è più alcun ricorso possibile a questa decisione” ha dichiarato Carlos Sanchez, responsabile della ‘Registraduría Nacional de Estado Civil’, confermando in seconda istanza che il numero di firme previsto per legge per indire un “referendum revocatorio” – almeno il 40% dei voti ottenuti da Petro alla sua elezione nel 2011 – “è stato superato”. La data precisa del referendum verrà stabilita entro due mesi, ma presumibilmente, secondo fonti di stampa colombiana, rischia di non potersi tenere “prima di alcuni mesi”. Per essere confermata la revoca del sindaco di Bogotá, seconda carica dopo il capo dello Stato, deve vedere la partecipazione al referendum di almeno il 55% del totale dei suffragi espressi durante la sua elezione oltre al voto a favore da parte della maggioranza degli aventi diritto.

Nelle ultime ore Petro ha incontrato cinque dirigenti della Commissione interamericana dei diritti umani (Cidh) a cui ha già avanzato la richiesta di rendere inapplicabile la decisione del procuratore. Figura di spicco della sinistra colombiana, oltre a essere stato sollevato dal suo incarico di sindaco, Petro, economista 53 enne, è stato anche inabilitato a ricoprire incarichi pubblici per i prossimi 15 anni, per “irregolarità” rilevate da Ordóñez nella sua politica di gestione dei ciclo dei rifiuti urbani. Una decisione denunciata da Petro e dai suoi sostenitori come un “golpe”, come frutto di un “complotto”. Per giorni in Plaza de Bolívar, nel cuore di Bogotá,  si sono tenute massicce proteste contro la destituzione del sindaco, personaggio scomodo ai conservatori.

- (Cisgiordania). SCONTRI A JENIN, DUE PALESTINESI UCCISI

Un palestinese di 23 anni, Nafaa al-Saedi, è stato ucciso e altri sette sono rimasti feriti in scontri con l’esercito israeliano a Jenin, nel nord della Cisgiordania. Secondo fonti di sicurezza palestinese la vittima era un esponente del movimento della Jihad islamica. L’agenzia di stampa ufficiale Wafa ha riferito che gli scontri sono scoppiati quando i militari israeliani “travestiti da palestinesi” hanno fatto un blitz nell’abitazione di un dirigente di Hamas, detenuto in un carcere in Israele. Al-Saedi, che si trovava nella casa, è stato ferito a colpi d’arma da fuoco che hanno provocato la sua morte.

Nelle stesse circostanze sono rimasti feriti altri sei uomini, successivamente trasportati per cure all’ospedale di Jenin. Uno di loro, Ali Qassem al-Saedi, 21 anni, è deceduto per le ferite riportate. Il responsabile delle emergenze della Mezzaluna rossa palestinese nella città settentrionale, Mahmoud al-Saedi, ha invece detto che i tafferugli si sono verificati dopo l’ingresso delle forze speciali israeliane nel campo profughi di Jenin.

Diversa è la ricostruzione dell’episodio resa nota dall’esercito israeliano in base alla quale i militari impegnati in un’operazione tesa ad arrestare un sospetto a Jenin sono stati attaccati da palestinesi che hanno esploso colpi d’arma da fuoco e lanciato ordigni artigianali.

 Lo scorso 7 dicembre un palestinese di 15 anni è stato ucciso dalle forze di sicurezza israeliane in un campo sfollati nei pressi di Ramallah. Il mese scorso un soldato israeliano di 18 anni è morto dopo esser stato accoltellato da un palestinese a bordo di un autobus in servizio fra Nazareth e Afula, nel nord di Israele.

Questi episodi giungono in un momento di rinnovate tensioni tra le due parti e proprio mentre il tentativo americano di riavviare il negoziato di pace non sembra portare i frutti sperati. Secondo fonti Onu dall’inizio dell’anno 27 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane, per lo più in Cisgiordania.

- (Centrafrica). BANGUI: PIÙ ALTO BILANCIO VIOLENZE, “CRIMINI DI GUERRA”

Hanno causato almeno mille morti gli scontri interreligiosi dilaniati a Bangui dal 5 dicembre e le violenze “continuano”: è la denuncia di Amnesty International che accusa le due parti coinvolte – l’ex ribellione Seleka e le milizie di autodifesa Anti-Balaka – di “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”. Secondo gli ultimi bilanci diffusi nei giorni scorsi le vittime confermate sono 600.

Per l’organizzazione di difesa dei diritti umani, la maggior parte delle vittime è stata causata dagli uomini della Seleka che, dopo l’offensiva delle milizie Anti-Balaka (a maggioranza cristiana) infiltrate in alcuni quartieri della capitale, si sono “vendicati in modo sistematico, uccidendo circa mille persone in due giorni, tra cui donne e bambini, e saccheggiando le case dei civili”. Anche i miliziani Anti-Balaka organizzati un gruppi di autodifesa non sono stati da meno, “uccidendo almeno 60 uomini musulmani in rastrellamenti effettuati casa per casa”. I quartieri più colpiti sono stati quelli di PK5, Miskine e Combattant.

Amnesty International e Human Rights Watch hanno lanciato l’allarme per il protrarsi delle violenze “nonostante la presenza di soldati francesi (in 1600, ndr)” nell’ambito dell’operazione Sangaris. Secondo le due organizzazioni le  “atrocità settarie si stanno intensificando”, con civili uccisi quotidianamente – almeno in 90 dall’8 dicembre – e “gravi violazioni dei diritti umani vengono tutt’ora commesse a Bangui e nel nord del paese”. Negli ultimi giorni tutta l’attenzione dei media si focalizza sulla capitale, che deve anche fare i conti con una grave emergenza umanitaria: gli sfollati sono 210.000, circa un quarto di tutta la popolazione residente a Bangui. Nel paese in tutto si registrano almeno 614.000 sfollati.

“Non ci sarà alcuna prospettiva di conclusione della spirale di violenza fin quando tutte le milizie non saranno disarmate e fin quando non sarà garantita una protezione effettiva e adeguata a migliaia di civili a rischio nel paese” ha dichiarato Christian Mukosa, l’esperto di Centrafrica di Amnesty International, sottolineando le responsabilità della comunità internazionale chiamata a “sostenere con ogni mezzo il dispiegamento di truppe di peacekeepers per evitare che la scia di sangue si allunghi”.

Sul fronte politico, sembra per ora scongiurato il rischio di una crisi istituzionale provocata dalla recente decisione del presidente Michel Djotodia di destituire tre ministri senza l’avallo del primo ministro Nicolas Tiangaye. Con la mediazione della comunità dell’Africa centrale, al termine di una “riunione di riconciliazione”, i due responsabili della transizione, pur rimanendo fermi sulle proprie posizioni, hanno annunciato un rimpasto di governo parziale “entro la fine del mese” per tenere conto dei complessi equilibri politici nazionali.

Intanto la crisi centrafricana è al centro del vertice europeo che si apre oggi a Bruxelles, dove la Francia cercherà di coinvolgere gli Stati membri con l’invio di truppe a sostegno dei soldati di Sangaris. Per ora Spagna, Belgio, Polonia e Gran Bretagna hanno confermato un supporto soltanto logistico.

(Sud Sudan). RIBELLI PRENDONO IL CONTROLLO DI BOR, PRIME APERTURE AL DIALOGO

Uomini armati guidati da Peter Gatdet Yak hanno preso il controllo della località di Bor, capoluogo dell’instabile stato di Jonglei: lo hanno confermato i vertici delle forze armate sud sudanesi (Spla) dopo aver annunciato che Gadet – un ex capo ribelle integrato come generale dell’ottava divisione dell’esercito nello stato di Jonglei – “ha disertato dai ranghi”.

La diserzione di Gadet e dei suoi uomini avviene a 72 ore dall’inizio di una crisi politico-militare che fa temere per la stabilità interna del più giovane stato africano e dopo che l’ex vicepresidente Riek Machar è stato accusato di aver ordito, assieme ad altri ufficiali, un colpo di stato svrntato dall’esercito.

Machar e Gadet sono entrambi di etnia Nuer, a differenza del capo dello stato Salva Kiir Mayardit, rappresentante della comunità maggioritaria dei Dinka: il timore di molti, in queste ore, è che la frattura in seno ai vertici del partito di maggioranza (Splm) possa radicalizzarsi secondo dorsali etniche, ripiombando il paese nel conflitto.

La defezione di Gadet, inoltre, mina la sicurezza in una regione difficile, in cui le forze governative stanno conducendo una complessa campagna di disarmo e dove un’altra ribellione armata, quella di David Yau Yau, è attiva dal 2012. Il peggioramento della situazione a Bor è stata inoltre confermata dalla locale missione Onu (Unmiss) che nel suo ultimo bollettino, questa mattina, riferisce di “violenti scontri armati” che hanno costretto “migliaia di civili alla fuga, e a chiedere assistenza e alloggio nella base militare dell’Onu, nella periferia sud del capoluogo”. La Croce Rossa Sud Sudanese riferisce di 19 morti mentre il governatore John Kong Nyuon e altri ufficiali della zona hanno abbandonato l’area.

Sul fronte politico, intanto, è giunta una prima apertura al dialogo da parte del presidente Kiir che, in una conferenza stampa nella serata di ieri si è detto “pronto a parlare con chiunque ne abbia voglia”. Sempre nell’uniforme militare che da lunedì ha sostituito i suoi soliti abiti civili, Kiir, ha auspicato “una soluzione pacifica” per la crisi in atto.

Dal canto suo, l’ex vicepresidente Machar, la cui frattura con Kiir è cominciata dopo aver annunciato l’intenzione di candidarsi alle elezioni presidenziali nel 2105, ha smentito ogni tentativo di golpe.

“Quello che volevamo – ha sottolineato – era trasformare in modo democratico il partito. Ma Salva Kiir ha voluto usare il presunto golpe per sbarazzarsi di noi e controllare governo e partito”. Machar è attualmente ricercato dalle autorità del Sud Sudan insieme ad altri quattro uomini politici. Secondo diverse fonti, l’ex vicepresidente si troverebbe ancora a Juba, sebbene il governo abbia detto che è “in fuga”. Ieri le autorità hanno annunciato l’arresto di 10 alte personalità, tra cui otto ex ministri di governo, rimossi lo scorso luglio dal loro incarico assieme allo stesso Machar.