Brevi dal mondo - Misna (18 dicembre 2013)

18.12.2013 17:04

- (Filippine). KERRY A MANILA PER RILANCIARE I RAPPORTI MILITARI ED ECONOMICI

Nel secondo dei due giorni di visita nelle Filippine, il segretario di stato Usa, John Kerry ha visitato le aree devastate dal tifone Haiyan l’8 novembre. Occasione per annunciare un aiuto supplementare di 25 milioni di dollari che porta il totale statunitense a 86 milioni (proprio oggi l’Unione Europea ha annunciato una simile iniziativa per l’ammontare di 20 milioni di euro). Kerry ha definito la visione di Tacloban “una devastazione come non ne ho mai viste”, una situazione “simile a una zona di guerra e per molti dei suoi abitanti lo è”.

Gli Stati Uniti sono stati tra i primi a partecipare al massiccio programma di soccorso dell’antica colonia e nel dopoguerra stretto alleato, portando in pochi giorni a ridosso delle coste delle isole devastate da Haiyan la portaerei George Washington e le navi di appoggio, con un gran numero di mezzi aerei e anfibi

A conferma che lo strumento militare resta favorito nei rapporti tra i due paesi, la visita di Kerry – che ha anche risvolti economici, di assistenza umanitaria e rapporti tra rispettivi cittadini – ha al centro proprio una maggiore cooperazione delle forze armate Usa con quelle filippine.

Inevitabilmente a emergere dei colloqui con il ministro degli Esteri, Robert del Rosario, le tensioni accese dalle pretese cinesi su aree marittime rivendicate anche dalle Filippine e da una mezza dozzina di altri paesi litoranei nel Mar cinese meridionale. Ancor più dopo la creazione di una zona aerea di attenzione della difesa nei cieli sopra altre acque, contese con il Giappone, nel Mar cinese orientale.

Da tempo i negoziatori dei due paesi stanno lavorando a un accordo-quadro su una più ampia cooperazione alla difesa e presenza a rotazione che, senza arrivare a concedere a Washington basi come quelle chiuse nel 1991-92, consenta uno stanziamento provvisorio di contingenti e mezzi Usa in basi filippine. Dopo anni di relativa freddezza, sotto la presidenza di Benigno Aquino, i rapporti di cooperazione economica e militare tra i due paesi sono migliorati e la pressione cinese ha indubbiamente spinto le due diplomazie a rapporti più stretti e costruttivi.

- (Sud Sudan). JUBA TIRA IL FIATO E SI INTERROGA SUL ‘GOLPE’

“Questa mattina la vita nel centro di Juba è tornata ad una parvenza di normalità: i mercati sono affollati e per le strade c’è tanta gente. Ma in alcune zone periferiche tensioni e combattimenti non sono cessati del tutto”: lo racconta suor Enrica Valentini, direttrice del Network delle Radio Cattoliche (Crn) raggiunta dalla MISNA nella capitale del Sud Sudan.

“In giro c’è una presenza massiccia di militari che pattugliano gli incroci – dice ancora la missionaria comboniana – ma nel complesso la situazione sembra più calma di ieri e all’aeroporto stanno ripristinando pian piano sia i voli interni che quelli internazionali, sospesi da due giorni”.

A distanza di 72 ore dall’inizio degli scontri armati che hanno scatenato il panico tra la popolazione civile e fatto temere per la stabilità interna del più giovane stato africano, la dinamica degli eventi resta confusa. Il presidente Salva Kiir Mayardit, apparso lunedì mattina in conferenza stampa in uniforme militare, ha annunciato al paese di un “tentato golpe” sventato dall’esercito, di cui ha accusato il suo ex vice, Riek Machar.

La versione riferita dal governo –tuttavia – ha sollevato più di un dubbio. “Alcuni si sono chiesti se un tentato golpe, in un paese ancora fortemente militarizzato, non avrebbe dovuto essere meglio organizzato” dicono fonti della MISNA, mentre altri in queste stesse ore hanno accusato il governo di voler mettere a tacere voci critiche divenute, negli ultimi mesi, sempre più insistenti. Sul piano politico, lo scontro tra Kiir e Machar risale all’inizio dell’anno, quando quest’ultimo ha annunciato l’intenzione di candidarsi alla presidenza in occasione delle elezioni del 2015 ed è stato quindi destituito dall’incarico di vice-capo dello Stato e costretto a lasciare l’ufficio politico del partito di governo.

“Il timore di molti è che una lotta per il potere, abilmente manovrata andando a fare leva sulle tensioni mai sopite tra le diverse comunità, Dinka, Nuer, Shilluk e non solo, rischi di trascinare tutto il paese nella spirale dell’odio”osserva la missionaria.

Se dalla contea di Bor, a Jonglei, arrivano notizie di scontri intorno ad una caserma dell’esercito, almeno per il momento però, le violenze non sembrano aver coinvolto altre aree del paese . “A Wau, ieri, gli abitanti sono scesi per strada e hanno allestito un corteo – sottolinea suor Enrica – per dire che il popolo ha già pagato un alto tributo di sangue alla guerra e che adesso vuole vivere in pace”.

- (Centrafrica). TRANSIZIONE A RISCHIO, LA CRISI SUL TAVOLO DELL’EUROPA

La transizione politica in Centrafrica, già messa a dura prova dall’insicurezza e dall’emergenza umanitaria, deve anche fare i conti con una spaccatura tra le sue principali componenti. All’origine della crisi istituzionale c’è il decreto firmato lunedì scorso dal presidente Michel Djotodia con il quale tre ministri e il direttore del Tesoro sono stati destituiti. Una procedura contestata dall’opposizione che ha denunciato una “violazione degli accordi di Libreville” (firmati lo scorso gennaio tra l’ex presidente François Bozizé e l’allora coalizione ribelle Seleka, ndr), chiedendo “l’annullamento dei decreti varati in modo unilaterale”. Il provvedimento avrebbe dovuto essere controfirmato anche dal primo ministro di transizione, Nicolas Tiangaye, unica personalità politica centrafricana riconosciuta dalla comunità internazionale poiché scelta consensualmente. La terza figura istituzionale della transizione è il presidente del Consiglio nazionale (Cnt, parlamento), Alexandre Ferdinand Nguendet, considerato vicino a Djotodia.

Per cercare di evitare un “braccio di ferro giuridico” dinanzi la Corte costituzionale tra il capo dello Stato e il primo ministro, a Bangui i diplomatici incaricati di verificare l’attuazione degli accordi di Libreville stanno tenendo riunioni ad alto livello. Dopo essersi rifiutato di ritirare i decreti, nelle ultime ore Djotodia ha ammorbidito la sua posizione accettando di sedersi attorno a un tavolo con Tiangaye e Nguendet per “discuterne”. L’incontro della “riconciliazione” è previsto per oggi, in presenza dei mediatori dei paesi dell’Africa centrale. Il capo del governo ha lanciato un appello alla “calma”, invitando tutte le parti a “preservare l’unità nazionale e la concordia, fondamenta del nostro paese” ha detto Tiangaye, rifugiato all’aeroporto dopo che la sua casa è stata saccheggiata nell’ultima ondata di violenza nella capitale, conclusa con 600 morti e 210.000 sfollati.

La Francia, impegnata militarmente in Centrafrica con 1600 soldati dell’operazione Sangaris, ha annunciato che potrebbe varare sanzioni ai danni di Djotodia, ribadendo che “sono previste dalla risoluzione 2127 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nei confronti di chi non rispetta gli accordi di transizione e di chi minaccia o ostacola il processo politico”.

Intanto sul versante militare prosegue l’intervento dei militari di Parigi a Boy-Rabe con blindati ed elicotteri per mettere in sicurezza il quartiere considerato un bastione delle milizie di autodifesa Anti-Balaka. Proprio oggi avverrà il passaggio ufficiale di consegne tra la Forza dell’Africa centrale (Fomac) e la Missione internazionale di sostegno al Centrafrica (Misca), una forza panafricana di 3600 soldati che a pieno regime potrebbe raggiungere i 6000 uomini. “In dieci giorni più di 7000 esponenti dell’ex ribellione Seleka sono stati disarmati e sono stati accantonati nelle caserme” hanno annunciato fonti della Misca. Per far fronte a una situazione complessa, non solo a Bangui, la Francia e i paesi africani sollecitano sostegni in truppe, logistici e finanziari. La crisi centrafricana sarà al centro del vertice europeo che si apre domani a Bruxelles.

Se tutti gli Stati membri dell’Unione europea hanno già espresso “pieno sostegno” all’intervento francese, per ora il dispiegamento di truppe non è all’ordine del giorno. Londra, Madrid e Berlino hanno messo a disposizione aerei per il trasporto di soldati e di materiale militare. L’Ue finanzierà la Misca con un contributo di 50 milioni di euro che si aggiungono ad altri fondi destinati agli aiuti umanitari. Ieri la crisi centrafricana è stato il tema di una riunione al Senato statunitense. “E’ la crisi più violenta in un paese che non è mai stato risparmiato negli ultimi 50 anni. Ci assicuriamo che le forze sono ben addestrate, ben equipaggiate affinché abbiamo i mezzi per agire in fretta e dispiegarsi fuori dalla capitale” ha dichiarato ai senatori Linda Thomas-Greenfield, vice segretario di Stato all’Africa. Washington ha sbloccato 100 milioni di dollari per rafforzare le capacità della Misca.

- (Cile). INDAGÒ SUI CONTI DI PINOCHET, ELETTO CAPO CORTE SUPREMA

Sergio Muñoz Gajardo, noto, fra l’altro, per aver indagato nel 2004 sui conti correnti bancari segreti aperti all’estero da Augusto Pinochet e sull’origine della sua fortuna, è il nuovo presidente della Corte Suprema del Cile. Muñoz è stato eletto all’unanimità e sostituirà Rubén Ballesteros.

Muñoz, 56 anni, era approdato alla Corte Suprema nel 2005 ed è l’esponente più giovane del massimo tribunale del paese, che guiderà nel biennio 2014-2015. Nella sua carriera si è trovato, fra l’altro, coinvolto nelle indagini per l’assassinio del leader sindacale Tucapel Jiménez, ucciso nel 1982 dalla polizia segreta della dittatura. Riuscì a far condannare all’ergastolo gli autori del crimine.

Il nuovo presidente della Corte Suprema era stato incaricato di investigare nel 2003 anche su uno scandalo di natura sessuale in cui era coinvolto l’imprenditore Claudio Spiniak e che all’inizio ha interessato anche i dirigenti della Unión Demócrata Independiente (Udi, destra), poi giudicati innocenti. Spiniak è fra l’altro tornato in libertà martedì dopo essersi visto ridurre una condanna a 12 anni per buona condotta.

Nel caso del bottino di Pinochet, l’inchiesta aperta da Muñoz ha appurato che solo un paio dei 26 milioni di dollari accumulati nell’arco della sua vita aveva un’origine legittima. Alla sua morte, nel 2006, Pinochet era sotto processo per falsificazione di passaporti e privo dell’immunità parlamentare, passo precedente al rinvio a giudizio per malversazione di fondi pubblici, e con un ordine di ‘congelamento’ su tutti i suoi beni, situazione che persiste anche oggi.

- (Sud Sudan). JUBA SPERANZE E REALTÀ (Intervista)

“C’erano grandi aspettative ma la realtà è diversa” dice alla MISNA Leben Nelson Moro, professore del Centro studi per la pace e la sicurezza dell’Università di Juba. Parla con la voce rotta dall’emozione, dopo tre giorni difficili, dall’esito ancora incerto.

Nella capitale del Sud Sudan oggi si è sparato di meno. E nel corso di una conferenza stampa il presidente Salva Kiir ha detto di essere pronto a dialogare con Riek Machar, il suo ex vice accusato di aver organizzato un tentativo di golpe. Un nuovo fronte si sarebbe però aperto nella regione di Jonglei, nell’est del paese, dove sono stati segnalati combattimenti nei pressi di alcune caserme alle porte del capoluogo Bor. Secondo il colonnello Philip Aguer, un portavoce dell’esercito, dall’inizio della crisi a perdere la vita sono state più di 450 persone, soldati ma anche civili.

Professor Moro, due anni e mezzo fa il Sud Sudan festeggiava l’indipendenza in un clima di ottimismo e speranza. Cos’è successo?

“È vero, c’erano grandi speranze, grandi aspettative, condivise da buona parte della comunità internazionale. La gente era emozionata. Pensava all’indipendenza come alla fine della guerra e all’inizio di un periodo di pace, stabilità e sviluppo. Un periodo nel quale non sarebbe più stata costretta a lasciare le proprie case a causa delle violenze. Le aspettative erano queste ma la realtà, adesso, si rivela differente. Cominciamo a renderci conto che è molto difficile il passaggio da un paese in guerra, una guerra durata decenni, a una democrazia stabile e pacifica. È un passaggio per il quale serve tempo, non certo solo due o tre anni. Il conflitto scoppiato domenica, che pure ci ha colti di sorpresa, ne è la conferma”.

Kiir sostiene di aver sventato un golpe, mentre Machar denuncia “una macchinazione per reprimere il processo democratico”. Qualcuno dei due dice la verità? O è solo una lotta per il potere?

“Stabilire con esattezza cosa è accaduto domenica sera nella caserma di Bilpam, a Juba, è difficile. Di certo però i contrasti interni al Movimento popolare di liberazione del Sudan (Splm) si erano aggravati. Kiir e Machar avevano entrambi combattuto contro Khartoum durante la guerra civile ma non erano affatto buoni amici. I contrasti tra di loro erano continui e riguardavano ambiti diversi. A luglio, dopo aver annunciato l’intenzione di candidarsi alle elezioni nel 2015, Machar era stato destituito dall’incarico di vice-presidente e poi anche da quello di membro dell’ufficio politico del partito. E i contrasti politici, in Sud Sudan, si ripercuotono automaticamente nelle Forze armate. All’interno dell’esercito i dirigenti hanno i propri sostenitori. Fino alla settimana scorsa le Forze armate sembravano essere un corpo unitario; ma domenica si è capito che erano divise tra chi appoggiava l’uno e chi appoggiava l’altro”.

Esiste il rischio che lo scontro politico-militare inneschi un conflitto tra comunità su ampia scala? Nelle basi dell’Onu a Juba si sarebbero rifugiati soprattutto Nuer, appartenenti allo stesso gruppo di Machar…

“Tutti sanno che l’affiliazione etnica è un elemento chiave in Sud Sudan. Questo è vero da sempre e certo lo è stato durante la guerra civile. I politici, di qualunque parte, hanno regolarmente strumentalizzato il discorso etnico per raggiungere i propri obiettivi. Oggi potrebbe succedere lo stesso. Il problema è come impedire che questo accada, che la situazione sfugga da ogni controllo e si inneschi un ciclo di rappresaglie”.

Cosa può fare la comunità internazionale?

“Gli amici del Sud Sudan dovrebbero persuadere Kiir e Machar a fermarsi. La Cina può fare leva sulla sua crescente influenza economica, gli Stati Uniti sui loro tradizionali legami con il governo. Entrambi dovrebbero premere sui dirigenti perché il conflitto sia risolto attraverso una trattativa e non con la violenza”.

- (Global). DALLE FILIPPINE ALLA SOMALIA GIORNALISTI A RISCHIO

Sono Siria, Somalia e Pakistan i paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti: lo sostiene l’organizzazione non governativa Reporters sans frontières (Rsf), in un rapporto diffuso oggi nel quale si evidenzia come anche il 2013 sia stato un anno difficile per l’esercizio della professione.

Secondo Rsf, rispetto al 2012 quest’anno il numero dei cronisti uccisi è diminuito di circa il 20%, passando da 88 a 71. Nella classifica dei paesi più a rischio India e Filippine hanno preso il posto di Messico e Brasile dietro Siria, Somalia e Pakistan.

A suscitare allarme, d’altra parte, è anche un forte aumento del numero dei rapimenti. In un anno si è passati da 38 a 87 casi. Gran parte dei sequestri è avvenuta in Medio Oriente e in Nord Africa (71) o nell’area sub-sahariana (11). I paesi più a rischio da questo punto di vista sono Siria (49) e Libia (14).

Nel rapporto si ricorda come ad oggi i giornalisti in carcere siano 178. Molti di loro sono detenuti in Cina, Eritrea, Turchia, Iran e Siria, i paesi identificati come più repressivi.