(S.Sede) La doppia verità del Vaticano il "secondo Cremlino" oltretevere (Massimo Franco, Corriere della Sera, 16 febbraio 2013)

16.02.2013 18:48

Alla vulgata ottimistica si contrappone quella di giudizi al cianuro Italia e Vaticano, accomunati nel caos. Se il web è la nuova frontiera della cosiddetta «società civile», l'abbondanza di battute che dopo l'annuncio delle dimissioni di Benedetto XVI ironizzano su una Santa Sede «italianizzata», segnala una novità non da poco. Si descrivono due Stati e due sistemi entrambi privi di governo; bloccati per le elezioni e per il Conclave; in crisi profonda, e bersagliati come se partiti screditati e istituzioni ecclesiastiche fossero più o meno la stessa cosa. L'aspetto singolare è che ad alimentare questo atteggiamento stavolta sembra non tanto l'eterna precarietà della politica, ma la recente instabilità del Vaticano: in apparenza una contraddizione in termini. La Santa Sede è un ancoraggio bimillenario, certo. Poteva sgretolarsi tutto, ma non la Chiesa: fisicamente e simbolicamente, quella era lì, immutabile.
Non a caso, nel 1944 un diplomatico statunitense, William Bullitt, dopo essere stato a Roma scolpiva ammirato sul settimanale Life: «Il Vaticano è il fattore permanente della politica italiana». Non significava soltanto che la condizionava, ma che era una stella fissa della quale bisognava tenere conto e dalla quale trarre esempio. Non più. Adesso, parafrasando quell'ambasciatore verrebbe da dire che il Vaticano è lo specchio contingente della politica italiana. Sembra replicarne i conflitti interni, la litigiosità, l'incapacità di trovare una sintesi. La constatazione più istintiva è che oggi dalla Santa Sede non arrivano segnali di stabilità ma di ingovernabilità. Sotto questo aspetto, l'annuncio dell'«abdicazione» del Papa ha reso evidente ed estremizzato una sensazione presente da qualche anno nella stessa nomenklatura politica italiana.
«Abbiamo avuto l'impressione che non stiano meglio di noi: sono divisi e senza strategia», confidava qualche mese fa un leader dopo avere incontrato alcuni esponenti vaticani di vertice. «Siamo messi male», ammettevano da tempo gli esponenti ecclesiastici più attenti alle dinamiche interne, sfuggite a qualsiasi controllo. E quando il 12 febbraio scorso, alla festa per l'anniversario dei Patti Lateranensi fra Italia e Santa Sede, una persona ha confessato il proprio sconcerto per le dimissioni del Pontefice, un eminente cardinale ha replicato, fulminante: «Lo dice a me?», rivelando una perplessità ancora più profonda, dolorosa: totale.
È la conferma dell'esistenza di una sorta di doppia vulgata su quanto è successo. Una, ufficiale e ottimistica, per mesi si è sforzata di minimizzare i problemi. Ed era pronta a tacciare qualunque critica come «nemica della Chiesa» e frutta di «un complotto anticattolico». L'altra vulgata, invece, si propagava sotto traccia, condita da giudizi al cianuro su quanto accadeva. Della prima si ritrova una traccia profonda e un po' sconcertante nel coro commosso, impregnato di gratitudine e di comprensione nei confronti di Benedetto XVI: un riconoscimento delle buone ragioni del Pontefice per compiere il gesto delle dimissioni. Ma intanto continua a scorrere e a lievitare l'altra narrativa, attraverso una sorta di samizdat papalino: termine russo che definiva la diffusione clandestina di opuscoli e parole d'ordine contro il regime comunista nell'Urss. È come se si assistesse a uno sdoppiamento della verità, provocato dall'enormità di fatti già in sé difficili da spiegare; e ancora più imbarazzanti per l'attuale debolezza dell'istituzione che li produce.
Può apparire un paragone blasfemo, ma l'immagine del Vaticano di oggi come un «secondo Cremlino» destinato a entrare in crisi profonda una ventina d'anni dopo la fine della guerra fredda e del «primo Cremlino» comunista, qui e là fa capolino. Anzi, in alcuni circoli nordeuropei, da sempre ostili, è un epilogo teorizzato da tempo. È un fatto che mentre prima si entrava dentro le cosiddette «Sacre Mura» con l' impressione di «uscire dall'Italia» per accedere a un privilegiato, piccolo paradiso dominato dall'ordine e da una almeno apparente armonia, adesso è diverso. Chi va e viene abitualmente nota da tempo un clima di sospetti e di timore. La Roma pontificia non è un'alternativa alla confusione, ai pasticci e agli scandali della Roma non religiosa. Ne rappresenta in qualche maniera un prolungamento. Era prima anche così, forse. La differenza è che adesso si vede: anche troppo.
Purtroppo, perfino se si elencano alcuni scandali del recente passato, si vede che a volte hanno per protagonisti personaggi un po' «vaticani», un po' «italiani». Almeno nel senso che rappresentano un impasto di interessi, di favori e perfino di complicità difficili da separare. «Gentiluomini di Sua Santità», banchieri, mediatori d'affari, politici, sacerdoti accreditati come «pii manager»: emerge un universo che entra ed esce dalle stanze vaticane e dalle cronache giudiziarie con frequenza sospetta. Rispunta ad ogni crocevia dei misteri. E si lascia dietro una scia di soldi spuntati da una parte e finiti chissà dove. È come osservare due crisi non parallele, ma quasi siamesi, intrecciate l'una all'altra. È in questo senso che si parla di una «seconda repubblica vaticana» in bilico insieme con quella italiana.
Finché Benedetto XVI rimaneva al suo posto, la finzione di una fase di passaggio come tante altre aveva diritto di cittadinanza. Ma nel momento in cui perfino il Pontefice decide un passo indietro, quei parametri che volevano riportare tutto ad una crisi più o meno fisiologica sono stati polverizzati. Sono da dimenticare e ricalibrare inserendo quelli necessari per riconoscere e affrontare una decadenza che rischia di assumere contorni epocali. Le ripetute denunce del Pontefice dimissionario sulle rivalità, il carrierismo, la mancanza di unità evocano insieme la consapevolezza dei problemi e l'impotenza a risolverli: un po' come nella politica italiana. Sembra che perfino lo stile delle polemiche e lo scontro malamente dissimulato tra ecclesiastici imitino le usanze del potere non religioso, invece di distanziarsene ostentatamente.
In fondo, è un indizio triste anche il modo identico col quale il campione del populismo elettorale, il comico e leader del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo, parla di Santa Sede e Stato italiano. «Sta fallendo anche il Vaticano», ha annunciato Grillo in una delle piazze gremite ed eccitate dalla sua furia iconoclasta. «L'amministratore delegato lo tengono in ostaggio a Castel Gandolfo». L'uditorio ha riso, applaudito. E probabilmente lì in mezzo c'erano anche molti cattolici. Si tratta di un «test» significativo. Aiuta a comprendere come una Chiesa percepita soprattutto nella sua dimensione di vertice e di potere, possa essere strumentalizzata e scelta come bersaglio da chi è a caccia di facili consensi. Ma dice anche che le dimissioni di Benedetto XVI rischiano, al di là delle spiegazioni più meditate e sofferte, di imprigionare il Vaticano in un cliché semplificato e devastante.