(USA) Usa, nel discorso di Obama il piano per il nation-building a casa (Fabrizio Maronta, Limes online, 13 febbraio 2013)

14.02.2013 14:06

Il quarto discorso sullo Stato dell'Unione di Barack Obama, il primo del suo secondo mandato, disegna un manifesto politico, più che un bilancio. In linea con quanto ripetuto ad nauseam in campagna elettorale e con le ampie indiscrezioni fatte filtrare ad arte sulla stampa, il tema dominante è stato, ancora una volta, quello che ci si aspettava: l'economia.

 

Non è stato l'unico. Nella sua lunga orazione di fronte a un Congresso che resta diviso sulle scelte fondamentali per rilanciare la crescita e i cui principali partiti, democratico e repubblicano, minacciano di riprecipitare il paese nel baratro dei tagli di bilancio automatici per l'incapacità di trovare un accordo sul tetto d'indebitamento federale, il presidente ha toccato vari argomenti.

 

Tra questi la violenza da armi da fuoco, per cui è tornato a invocare (almeno) limiti stringenti alla vendita di fucili semiautomatici; la riforma della normativa sull'immigrazione, che un Partito repubblicano scottato dalla defezione elettorale di massa delle minoranze appare ora incline a negoziare; e l'uscita dall'Afghanistan, che Obama - andando oltre i desiderata degli stessi vertici militari - ha annunciato di voler accelerare, ritirando oltre metà (34 mila su 66 mila) delle truppe ancora presenti nel paese entro la fine del 2013.

 

Ma è la necessità di rimettere in marcia l'economia nazionale, dando fiato a una ripresa tiepida che sta creando pochi posti di lavoro, ad aver fatto la parte del leone nel discorso presidenziale. Complice probabilmente la sostanziale incontrollabilità delle dinamiche internazionali (specialmente, ma non solo, in Medio Oriente) e lo spettro incombente del “declino relativo” (rispetto alle potenze emergenti, Cina in testa), Obama appare deciso a seguire le orme di Dwight Eisenhower, incentrando la sua eredità politica sul “nation building a casa”, come ama ripetere.

 


[Carta di Laura Canali]

 

 

In effetti, crescita e impiego rimangono le sfide principali di un'America alle prese con gli strascichi di una crisi strutturale che sembra aver intaccato seriamente il mito shumpeteriano della distruzione creatrice, da sempre al centro del capitalismo d'oltreoceano. La distruzione c'è stata, di ricchezza materiale (case, impieghi) e finanziaria. Ciò che ora appare difficile è ricostruire sulle macerie.

 

Nel 2012 l'economia statunitense è cresciuta dell'1,5%; per il 2013 si prevede una crescita dell'1,4% e dal 2014 (per quel che valgono i vaticini) il pronostico è di un'ulteriore accelerazione. Tuttavia, si prevede che i senza lavoro restino oltre il 7% del totale almeno fino al 2016. Sui dati niente da dire; dove la classe politica si divide è sulle ricette da applicare. I repubblicani battono sul tasto degli sgravi fiscali e della riduzione della spesa pubblica, per rilanciare i consumi e invertire la perversa spirale del debito.

 

L'amministrazione Obama, invece, punta di fatto su una ricetta neokeynesiana, esposta dal presidente nel suo discorso di ieri. Tre i punti principali: un programma infrastrutturale di (ri)costruzione e ammodernamento delle spesso vetuste infrastrutture nazionali; un forte investimento nell'istruzione, sin dall'età prescolare, per rimettere il “capitale umano” statunitense al passo con le esigenze di un'economia in cui tutto, dalla manifattura al terziario passando per la grande industria agroalimentare, necessita di competenze e livelli d'istruzione crescenti; e l'aumento del salario minimo a 9 dollari l'ora, per contrastare la piaga della sottoccupazione, che si manifesta con lavori sovente dequalificati e/o comunque mal pagati.

 

Dietro a queste misure puntuali, di grande impatto ma di non facile applicazione, si staglia l'eredità avvelenata della Grande recessione, cui si sommano i problemi irrisolti del sistema fiscale e finanziario statunitense. Tre emergenze su tutte. Primo: in un paese affamato di crescita e investimenti, le imprese siedono su una montagna di liquidità stimata in 2 mila miliardi di dollari, “parcheggiata” nelle sussidiarie estere per gli alti costi di rientro dei capitali - oltre che per la perdurante incertezza della congiuntura. Da qui l'urgenza della riforma fiscale caldeggiata dall'ex segretario al Tesoro Larry Summers, che livelli il prelievo sui profitti domestici ed esteri.

 

Secondo: dopo il diluvio del credito facile, degenerato nella crisi dei famigerati mutui subprime che ha innescato la tempesta finanziaria del 2007-2008, il sistema bancario lesina il credito alle famiglie, rallentando la ripresa del cruciale mercato immobiliare. Da qui la necessità di un ritorno della garanzia statale sui mutui ipotecari, attraverso le due agenzie parastatali Fannie Mae e Freddy Mac, passate da totem del sogno americano a simbolo del disastro finanziario, ma ora sostanzialmente risanate e più utili che mai.

 


[Carta di Laura Canali]

 

Terzo: la trasformazione del settore energetico nazionale, con la diversificazione delle fonti d'approvvigionamento, sia in termini di tipologia, che di fornitori. Nel suo discorso, Obama è tornato sul suo cavallo di battaglia delle energie “pulite”, come fonte d'impiego e risposta ai problemi ambientali di un'economia e un mondo affamati di energia, anche in vista dell'auspicata ripresa. Il principio, in sé, appare condivisibile e la spinta governativa nel settore delle rinnovabili resta fondamentale, in termini di investimenti e normative. Ma quando parla di clean energy, ora Obama pensa soprattutto alla rivoluzione del gas da scisti, che promette di ridisegnare il panorama energetico mondiale affrancando in tutto (temporaneamente) o in parte l'America dall'indispensabilità degli idrocarburi mediorientali, del resto sempre più contesi dalla Cina.