(India/Cina) Speriamo vinca il migliore

17.02.2013 09:39

Per quale ragione la democrazia più grande del mondo sta andando peggio della più grande dittatura del mondo? Per ciò che concerne crescita, inflazione, Pil procapite, disoccupazione, deficit e corruzione l’India sta infatti avendo un andamento peggiore della Cina. La grande rimonta prevista alcuni anni fa molto semplicemente non si è verificata. È vero, la Cina probabilmente ritocca i propri libri contabili con più intraprendenza di quanto non faccia l’India. Tuttavia, quasi tutti gli interlocutori con i quali ho parlato nelle due settimane che ho trascorso in viaggio per l’India approvano quel verdetto. Anzi, rincarano la dose: secondo loro è, per esempio, assai azzardato affermare che i poveri delle campagne stanno un po’ meglio rispetto a venti o trent’anni fa.
Un ex giudice della Corte suprema mi ha riferito con struggente indignazione che più del quaranta per cento dei bambini indiani è malnutrito. «Peggio che in Africa!» ha quasi gridato. Nel solo 2010, quando i raccolti sono precipitati, si sono suicidati circa diciassettemila agricoltori indiani.
Diversamente dalla Cina, ma al pari dell’Europa, l’India investe una gran quantità delle proprie energie semplicemente per far fronte alla propria incredibile eterogeneità. Il presidente francese Charles de Gaulle una volta esclamò: «Come si può governare un Paese che ha duecentoquarantasei tipi di formaggio?». Beh, e che dire allora di amministrare un Paese che ha trecentotrenta milioni di divinità? È vero che anche la Cina è caratterizzata da una notevole diversità nelle vaste seppur poco popolose aree abitate in maggioranza da tibetani e musulmani, ma affronta il fenomeno soprattutto con la repressione.
Affinché la libertà nella diversità sia proficua è indispensabile un’efficace narrazione unificante. Gli Stati Uniti ce l’hanno. L’Europa ha avuto qualcosa del genere dopo il 1945,mal’hasmarrita.InIndia vi sono, invece, molteplici storie in antitesi tra loro, in una chiassosa sarabanda politica e mediatica. Purtroppo, ma non c’è da stupirsi, molte di queste narrazioni sono settarie, regionali, grettamente scioviniste e disgreganti, invece che unificanti. C’è poi la cosiddetta Licence Raj: le strutture amministrative ereditate dall’impero britannico, e rimaste straordinariamente immutate sotto molti punti di vista, si sono ipertrofizzate in un apparato burocratico da incubo. Alcuni capitani d’industria indiani preferiscono investire altrove, proprio perché in India per ottenere tutti i permessi necessari occorrerebbero sette o otto anni. La risposta dovrebbe essere maggiore deregulation e liberalizzazione economica. E, per certi versi, è così. Questo, per esempio, è l’unico modo col quale si potrà arrivare a un accordo commerciale tra Ue e India che consenta apprezzabili benefici a entrambe. Ma anche la liberalizzazione a tutto gas degli anni Novanta è parte del problema. Si considerino i media, per esempio: quelli indiani ormai ostentano una corsa alla decadenza pura e semplice, commerciale e scandalistica, al confronto della quale il
Sun pare un notiziario per l’Esercito della Salvezza.
Poi c’è la politica. In India tutti, ma proprio tutti, mi dicono che a New Delhi affari e politica sono intimamente aggrovigliati come divinità tantriche. Accanto alla stridula e offensiva politica dell’identità regionale e religiosa e al principio dinastico (testimoniato dall’irresistibile ascesa di Raul Gandhi nel Congress Party), c’è la mostruosa arrendevolezza nei confronti di quei due terzi di indiani che sono ancora spaventosamente poveri. Mentre alcune iniziative umanitarie o legate a grandi aziende offrono loro l’aiuto necessario a cavarsela da soli, i politici per lo più si limitano a distribuire sussidi economici per generi alimentari essenziali, qualche cosuccia allettante da pochi spiccioli, un’occupazione a basso reddito garantita per tot giorni l’anno. E così facendo comperano i loro voti ogni volta che c’è un’elezione. Come nell’antica Roma, alla plebe si offrono panem et circenses: i circenses sono il cricket e i tanto osannati divi di Bollywood.
E allora: la Cina è destinata a continuare a vincere? Assolutamente no. No, perché se da un lato il sistema indiano è una soap opera quotidiana, dall’altro la grande crisi del sistema capitalista leninista cinese che si auto-contraddice deve ancora aver luogo. E no, assolutamente no, perché l’India è un paese libero, con un’eterogeneità quanto mai straordinaria di talento, originalità, personalità e spiritualità umane. E di certo quella libera espressione dell’individualità umana alla fine dovrà venir fuori. Per questo dico: forza India.