(Egitto) Egitto: una rivoluzione a spese dell’economia (Giovanni Mafodda, Limes online, 18 febbraio 2013)

18.02.2013 13:03
L'economia egiziana era in crescita ai tempi di Mubarak: oggi versa in condizioni critiche ed è danneggiata dalla perdurante instabilità. Disoccupazione giovanile al 25%, debito e inflazione alti. Congelati gli aiuti occidentali e dell'Fmi, non quelli di Qatar e Turchia.




[Carta di Laura Canali tratta da Limes 1/13 "L'Egitto e i suoi Fratelli"]

L’esperienza della rivoluzione egiziana, iniziata due anni fa e deflagrata nel corso di un lungo periodo di sostenuta crescita economica, testimonia che in determinate condizioni strutturali (sociali e culturali) un miglioramento dello standard di vita, anche degli strati medi e bassi della popolazione, se non è accompagnato da misure che mirano direttamente a incrementare l’equità e l’efficienza non basta a garantire un sistema economico realmente prospero.

 

Per l’Egitto molti analisti prescrivono pertanto che, a un tasso sostenuto di crescita (almeno del 7%, se si vuole utilmente impiegare la forza lavoro che ogni anno si presenta nel mercato nazionale), si accompagnino politiche in grado di supportare equità sociale ed efficienza nell’allocazione delle risorse. Una ricetta tanto nota quanto trascurata, anche in aree geopolitiche ben distanti dalle sofferenze del popolo egiziano e comunque pari, in termini di facilità di realizzazione, a quella antica dell’alce in salmì, che prevedeva: primo, prendere un alce.

 

 

La crescente polarizzazione degli schieramenti politici, che ha seguito l’assunzione di poteri para-dittatoriali da parte del presidente Morsi, collegata all’emanazione di misure per l’affievolimento del potere giudiziario e la successiva intransigenza mostrata di fronte all’ipotesi di posporre il referendum per la nuova costituzione, non giova certo ad una composizione “inclusiva” degli interessi in campo. Appare pertanto più che legittimo il timore che, anche in questa occasione, come già in altre della recente storia egiziana, le “ragioni dell’economia” siano immolate sull’altare delle contrapposizioni politiche.

 

I programmi del presidente Gamal Abd el-Nasser, meritevoli di aver sdoganato l'Egitto dalle pastoie economiche del suo percorso post-coloniale, generarono importanti guadagni, ma piagarono il tessuto economico del paese con le inefficienze tipiche dei sistemi di stampo dirigista, allora in voga tra i “non allineati”. A seguire, il maggiore spazio concesso dallo Stato alla capacità produttiva nel periodo del governo di Anwar Sadat ha causato una forte dipendenza dai fondi provenienti dall’estero, sui quali si poggiavano non solo gli investimenti, ma persino una consistente quota dei consumi. Alla fine, questa situazione portò il paese in una condizione di stagnazione, che caratterizzò l’esperienza economica negli anni ‘80.

 

La forte crescita economica registrata fino a due anni fa sotto la presidenza di Hosni Mubarak e la cancellazione del debito esterno, concesso nel periodo della prima guerra del Golfo, valsero al paese lo status di “economia a reddito medio-basso”. Il costo principale fu sostenuto dal mondo rurale. Si innescò un forte processo di inurbamento che contribuì a evidenziare la insostenibile disuguaglianza di benessere - non sempre di reddito, tra i più ricchi, ritenuti gli unici a godere pienamente del neo liberismo imperante, e tutti gli altri(1).

 

L’economia egiziana, pesantemente toccata dall’inizio della rivolta, ha iniziato a vedere momenti particolarmente difficili dal 2011(2), ben prima dell’elezione di Mohammed Morsi a presidente. Le previsioni di crescita per quest’anno non superano il 2%. La disoccupazione giovanile è al 25%, cifra che spaventa in un paese dove solo 3 cittadini su dieci sono sopra i trenta anni. Declino del turismo, blocco degli investimenti, inflazione crescente, forte indebitamento e deficit statale alto, caratterizzano, per il resto, un’economia che appare oltre ogni possibilità di autonomo recupero. Le uniche fonti di valuta estera a non aver subito i contraccolpi della rivolta anti Mubarak di due anni fa derivano dagli introiti dei transiti navali nel Canale di Suez e dalle rimesse degli emigranti.

 

Lo scorso novembre, l’Egitto aveva raggiunto un accordo preliminare con il Fondo monetario internazionale per un finanziamento di 4,8 miliardi di dollari, a un tasso di poco superiore all’1%, il più basso sul mercato della finanza internazionale, nell’ambito di un programma che prevede un cambio sostanziale del tanto deprecato sistema dei sussidi e una nuova, impopolare, impostazione in tema fiscale. Il presidente Morsi è stato però costretto a un precipitoso dietro front, dopo la fortissima reazione della popolazione alle previste misure di incremento degli introiti fiscali mediante l’imposizione di nuove tasse su acqua, carburante e consumi elettrici, nonché su alcuni beni di largo consumo come sigarette, bevande e liquori. Tutte misure pubblicizzate come altamente progressive, ma in realtà largamente penalizzanti per le classi media e meno agiata. “Come stringere la cinghia attorno a pance che già hanno fame”, è stato osservato.

 

I consiglieri economici del presidente Morsi hanno ammesso che, per rendere più accettabili nuove “riforme”, è meglio attuare interventi di stimolo all’economia prima di metterle in pratica. Dopo un periodo di interruzione dei colloqui con il Fondo, la finalizzazione del prestito è entrata in una fase di stallo. Il governo ha dichiarato di aver bisogno di un periodo di tempo maggiore per illustrare le previste misure di austerità alla popolazione. Le motivazioni di questa scelta hanno polarizzato ancora di più la situazione politica. Le opposizioni “secolariste” e i gruppi conservatori, come quello diretto da Hazem Abu Ismail, un tempo esponente all’interno della compagine salafita del partito al-Nour e ora in opposizione ancora più esplicita al presidente, hanno rivolto aspre critiche a Morsi e non solo.

 

Com’è opinione generale nello stesso governo, la priorità numero uno per Morsi è mettere mano alla disastrata condizione fiscale del paese, che presenta un doppio deficit di bilancia dei pagamenti e di budget statale, e prossimo a una crisi di bilancio che sarebbe devastante. Servono circa 23 miliardi di dollari(3) per tamponare il deficit previsto per l’anno fiscale 2012/2013. La stessa cifra fu necessaria anche per finanziare il deficit del bilancio precedente, il primo post-rivoluzionario, appianato poi con i proventi della raccolta di risparmio interno e delle riserve finanziarie in valuta. Non fu semplice neanche allora, ma lo stato finanziario del paese risulta oggi molto più indebolito ed il compito è sicuramente più gravoso.

 

Prova della pesante condizione attuale è la recente decisione della banca centrale di cancellare l’emissione di titoli di debito, che mirava a iniettare nelle casse dello stato poco meno di un miliardo di dollari. Una misura che si giustifica con l’urgenza di evitare la trasformazione dell'ansia della popolazione in panico. La cancellazione però ha posto ancora maggiore pressione sulla moneta egiziana, che così ha raggiunto il livello più basso nei confronti del dollaro statunitense degli ultimi 9 anni.

 

Per non trasformare il trend di svalutazione della moneta in una pericolosissima valanga, la banca centrale ha avviato delle aste in dollari, che dovrebbero consentire di manovrare ordinatamente la svalutazione monetaria. Sotto questo aspetto, la vulnerabilità del sistema egiziano è particolarmente elevata. L’Egitto importa circa la metà dei prodotti alimentari che consuma e pertanto l’incidenza sul reddito della popolazione è particolarmente negativa. L’autorità egiziana per la fornitura delle materie prime ha recentemente reso noto che il paese ha a disposizione riserve di farina fino al mese di giugno. Una dichiarazione pensata per rassicurare l’opinione pubblica, ma più che sufficiente a far intuire che l’argomento desta, comunque, molta preoccupazione.

 

Le riserve in valuta estera sono scese da 36 miliardi di dollari - registrati prima della destituzione di Mubarak - a 15 miliardi e vanno assottigliandosi sempre di più, a un ritmo di circa un miliardo di dollari al mese. Una condizione che la stessa banca centrale egiziana ha definito “minima e a un livello critico”, quanto basta a coprire i pagamenti in valuta e a far fronte ai flussi di import ritenuti “strategici”(4). Lo stato del sistema bancario è indebolito anche dal fatto che la grande maggioranza dei prestiti viene destinata al settore pubblico e la banca centrale ha più volte diminuito i limiti delle riserve obbligatorie a salvaguardia dei depositi, nel tentativo di liberare ulteriori disponibilità liquide a favore del sistema economico. Praticamente si sta “raschiando il barile”. Tentativi di nuovi finanziamenti delle necessità economiche statali sono stati esperiti nel corso del 2012 mediante l’emissione di nuovi strumenti di raccolta, come i cosiddetti “buoni della diaspora”, che hanno puntato sulle rimesse degli emigranti egiziani.

 

La constatazione “che le tensioni politiche e sociali siano diventate più gravi e facilmente resteranno ad un livello elevato nel medio termine”(5) ha indotto l’agenzia di rating Standard and Poor’s ad operare, alla fine di dicembre 2012, l’ennesimo downgrading del debito pubblico, ormai cinque livelli sotto la soglia dell’investment grade e al pari di quello greco. Questo ha aumentato i costi del servizio del debito. Il congelamento di un primo accordo, raggiunto a novembre 2012 a livello operativo tra il governo egiziano ed i rappresentanti del Fondo ai 4,8 miliardi di diretta provenienza Fmi, pone in stallo interventi per altri 14,5 miliardi di dollari(6), provenienti da organismi internazionali e da altri stati conferenti. Si tratta di una somma esattamente pari all’importo che il ministro delle finanze egiziano uscente, Momtaz al-Saeed, recentemente sostituito in occasione di un rimpasto della compagine governativa da El-Morsi El-Sayed Hegazy, ha dichiarato essere assolutamente essenziale per il paese nel corso del 2013.

 

L’intervento del Fondo viene considerato alla stregua di un “voto di fiducia” ai programmi di rientro dallo stato di crisi economica e, in tal senso, vale molto più dell’importo del prestito in sé. Diventa uno strumento essenziale per ricostruire la fiducia degli investitori internazionali. All’inizio di dicembre, la Banca africana di sviluppo, per fare un esempio, ha subordinato il previsto finanziamento di 500 milioni di dollari alla conclusione dell’accordo con il Fmi. Questa situazione motiva in parte anche il blocco di circa 2 miliardi di dollari di contributi da parte degli Usa, di altri consistenti aiuti della Germania. Per non menzionare le somme impegnate per i diversi progetti strutturali, che vanno avanti grazie ad interventi finanziari occidentali, come l’allargamento della metropolitana del Cairo, messi momentaneamente in attesa dall’Unione Europea.

 

Con un accordo siglato al Cairo dal presidente Morsi e da Catherine Ashton, capo delle relazioni esterne dell’UE, a novembre Bruxelles ha promesso all’Egitto un pacchetto di aiuti per un totale di 5 miliardi di euro per i prossimi due anni. La Banca europea degli investimenti e la Banca europea di ricostruzione e sviluppo garantiranno 2 miliardi di euro ciascuna, mentre 1 miliardo è previsto arrivare dai paesi appartenenti all’UE. Il passaggio del potere legislativo dal presidente alla Camera alta del parlamento, il Consiglio della Shura, che dovrebbe avere luogo prima delle elezioni parlamentari, presumibilmente a febbraio, bloccherebbe, stando ad alcune ipotesi, il raggiungimento di un accordo con il Fondo(7). Il timore è che il Consiglio, dominato dai partiti islamici, in linea con le promesse fatte nel corso della campagna elettorale, possa opporsi a riforme economiche ritenute troppo dolorose per la popolazione e previste dall’eventuale accordo con il Fmi. Bisogna poi ricordare che per una parte consistente dello schieramento politico che forma l’attuale maggioranza governativa, il Fondo monetario internazionale rimane un sinonimo di condizionamento politico e di riforme troppo pro mercato, uno strumento considerato, nel recentissimo passato, ad esclusivo vantaggio della “cricca dei compari” di Mubarak.

 

In una preoccupante somiglianza con quanto sta accadendo ora, nel maggio del 2011, le trattative per un prestito di 3,2 miliardi di dollari da parte del Fmi furono interrotte anche a causa dell’opposizione salafita all’interno dell’ora disciolto parlamento. Quest’ultima sosteneva che il prestito fosse contro la Sharia in quanto i previsti tassi di interesse erano da considerarsi come usura, posizione tutt’altro che unanimemente accettata all’interno dello stesso partito salafita al-Nour(8). Ma il clima da “due passi avanti e uno indietro” che si continua a respirare dalle parti del Cairo circa l’accordo con il Fmi, più che un problema di natura religiosa, riguarda in definitiva il ristrettissimo spazio di manovra che il governo ha davanti a sé per attuare un consistente piano di risanamento dei conti pubblici. Destinato a produrre ulteriori, dolorose ristrettezze per una popolazione ormai abituata a rispondere con le barricate. “A meno che non riesca a tirare fuori dalla manica con rapidità un paio di grassi conigli, è difficile possa trovare il supporto che gli serve”, ha commentato Elijah Zarwan(9), rappresentante al Cairo del Consiglio europeo per le relazioni estere, la difficile posizione del presidente Morsi. Tanto più complessa in vista delle elezioni che dovrebbero tenersi a febbraio.

 

Mentre il blocco al finanziamento del Fmi tiene sotto scacco gli interventi già previsti dagli altri organismi internazionali e dai paesi occidentali, da tutt’altro approccio sembrano essere guidate le attitudini dei partner arabi. In particolare, quelli della “cordata sunnita” ma non solo. Paesi che, ritenendo l’Egitto sia in definitiva troppo grande e importante per fallire, si mostrano meno preoccupati dello stato di forte agitazione sociale che interessa il paese, quanto più interessati a fare tutto il possibile per non stravolgere un assetto medio-orientale in bilico sul baratro. Non hanno, pertanto, mancato di passare all’aiuto concreto.

 

Il Qatar sembra in questo senso il più chiaramente esposto, tanto da creare malumori tra i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, e ha già assicurato all’Egitto fondi per 5 miliardi di dollari, direttamente al supporto del suo precario stato finanziario. Passando a un piano d’interventi maggiormente significativo nel lungo periodo, il Qatar ha poi promesso all’Egitto investimenti per un valore complessivo di 18 miliardi di dollari(10). Di questi, ben otto verranno destinati a interventi industriali vari nei settori del gas e della produzione di energia elettrica nella zona a nord dell’ingresso del Canale di Suez. I rimanenti 10 miliardi saranno destinati ad un intervento di grosso impatto nel settore turistico sulla costa mediterranea. Particolarmente significativo, anche per le implicazioni di sostegno occupazionale che comporta, è l’intervento del Qatar in un settore che il governo egiziano continua a segnalare come tra i più importanti per la propria economia anche in futuro. Colpito da un crollo della domanda turistica internazionale sin da prima dell’inizio della rivolta nel 2011, il settore, fino a due anni fa tra le primissime fonti di valuta estera dell’Egitto, continua a essere minato dal perdurante clima di forte instabilità politica e dalla mancanza di sicurezza che interessa il paese.

 

Anche la Turchia, secondo quanto segnalato dalle fonti egiziane di governo e dalla stampa locale, a gennaio ha assicurato la seconda parte di un contributo per la stabilizzazione finanziaria dell’Egitto, complessivamente pari a un miliardo di dollari. A questa cifra si aggiungerebbe l’offerta da parte del governo turco di un ulteriore pacchetto di aiuti finanziari per 2 miliardi di dollari. L’aspetto finanziario, unito alle recenti esercitazioni navali congiunte e a un piano per eliminare l’esistente sistema di visti tra i due paesi, testimonia, a parere di un crescente numero di osservatori, un’alleanza che potrebbe dare forma alla regione nei prossimi decenni e contribuire a farla emergere dai tumulti delle rivoluzioni arabe(11). Le prove di approfondimento del dialogo tra i due paesi, già ben rodato durante l’era di Mubarak, rappresentano comunque una novità nel posizionamento della Turchia in Medio Oriente, a seguito del collasso delle relazioni di Ankara con Damasco. Gli ambienti diplomatici internazionali hanno mostrato a suo tempo non poca sorpresa alla notizia che la prima visita ufficiale all’estero da parte del neoeletto presidente Morsi lo avrebbe portato in Arabia Saudita, il paese che forse più di ogni altro ha fatto di tutto per mantenere Mubarak al suo posto. Si tratta di ruggini di vecchia data ma sempre vive, una su tutte quella dell’appoggio dato dai fratelli mussulmani all’aggressione del Kuwait da parte delle truppe di Saddam Hussein nel 1990.

 

 

Con la visita di luglio, il presidente egiziano ha mostrato di considerare prioritario tranquillizzare i timori del più importante alleato della regione, tra i più sospettosi circa il dipanarsi rivoluzionario degli eventi in Egitto. Il legame economico tra i due paesi è molto forte. Tanto più in considerazione del suo attuale stato di necessità, il Cairo non può certo trascurare che l’Arabia Saudita, primo investitore tra i paesi arabi nell’economia egiziana, si è impegnata a dare supporto finanziario all’Egitto per 4 miliardi di dollari, in parte già pervenuti al Cairo, e ospita poco meno di due milioni di propri lavoratori.

 

 

Morsi si è recato in visita a Ryad anche una seconda volta, chiaramente per rassicurare il re Abdullah sul fatto che l’Egitto vuole garantire quella stabilità che i sauditi hanno a più riprese, nel corso degli ultimi due anni, considerato compromessa sulle rive del Nilo. L’attenzione di Morsi, del resto, torna utile a Riyad anche in relazione alle preoccupazioni provenienti dalla Siria, dove i sauditi hanno comunque posto il veto all’ingresso di un rappresentante della Fratellanza all’interno dell’opposizione al governo di Assad, dall’Iraq e dalle forze qaediste dello Yemen.

 

L’Egitto è così in attesa di altri 500 milioni di dollari in prestito a condizioni molto favorevoli per programmi di sviluppo. A questi vanno aggiunti 200 milioni a favore del sistema delle piccole e medie imprese egiziane e una linea di credito da 750 milioni di dollari per il finanziamento dell’export saudita(12). Il peso dei rapporti politici inter-arabi è evidente anche quando si vanno a esaminare interventi di natura più strettamente finanziaria. È il caso delle banche dei paesi del Golfo Persico, che, forti anche dei surplus di bilancio dei rispettivi stati, poco si curano del rischio politico, ritenendo comunque che un paese popoloso e dall’economia diversificata come l’Egitto, non può non avere un positivo futuro economico e rappresentare, di per sé, una garanzia di ritorni economici futuri non trascurabili.

 

In tal senso, l’acquisizione per due miliardi di dollari da parte della Qatar National Bank, del 77% della National Societè Generale Bank, braccio operativo in Egitto della Societè, è l’esempio di una serie di interventi che potrebbero vedere gli interessi arabi sostituirsi a quelli europei(13), indeboliti dalle traversie dell’eurozona. Senza contare che, nel 2013, anche il mercato egiziano potrebbe aprirsi all’emissione di bond islamici (sukuk), intercettando così un vettore in netta ascesa, utile alla crescita economica. Più degli occidentali, gli arabi si fidano dell’interpretazione recentemente fornita alla stampa da Mohamed Mahsoub, ex Ministro per gli affari parlamentari: “il governo rassicura tutti circa la situazione economica del paese. Non abbiamo un problema economico. Essenzialmente si tratta di un problema politico che sta riguardando la situazione economica”.

 

Facile immaginare che il 2013 sarà un anno cruciale per l’Egitto. Il compito che il presidente Morsi ha davanti, appare difficile ed enorme per l’impatto che implica: formulare un piano e disegnare un modello di sviluppo economico che comporti cambiamenti in materie che nessun governo precedente ha voluto sfiorare e che vanno ben al di là della ferma volontà di volersi assicurare il prestito del Fondo monetario internazionale, come ha dichiarato al momento del suo incarico il nuovo ministro delle finanze egiziano El-Morsi El-Sayed Hegazy.

 

Riforma fiscale, miglioramento del sistema educativo, abolizione dell’impianto dei sussidi generalizzati ora vigente, nuovo “patto” in tema di lavoro - in considerazione del forte incremento nell’ultimo anno degli scioperi e delle proteste dei lavoratori con la connessa creazione di sindacati indipendenti - recupero di una stabilità sociale ed economica che rifondi uno stato di diritto che sia di reale garanzia per tutti i cittadini in termini di sicurezza e protezione. Tutti temi che un paese come l’Egitto, popoloso crocevia tra l’Europa e l’Africa, può riuscire a gestire con il bilanciante supporto della comunità internazionale.

 

Lo sviluppo e la crescita economica non sono solo affare della politica, ma anche degli imprenditori egiziani più avanzati. Secondo alcuni opinionisti egiziani(14) mediante un “nuovo accordo sociale” sarebbe addirittura possibile e virtuoso rinunciare tout court ai costosissimi sussidi che, soprattutto nel settore dell’energia, vanno a favore dei più abbienti. Questo consentirebbe di liberare risorse per ben 58 miliardi di dollari da reimpiegare, per una parte, a spese dirette di welfare per i cittadini che ne hanno realmente bisogno e per l’altra, più cospicua, a vantaggio di programmi di assistenza sanitaria, educativi e a favore della creazione di posti di lavoro nell’economia reale.

 

Per quanto Morsi faccia continuo riferimento, nel corso degli incontri con i rappresentanti delle maggiori economie mondiali, alle positività di un’economia che segua le regole dei mercati, l’Egitto non potrà non interpretare, ben più che in passato, le necessità economiche se non attraverso le lenti della religione. Con buona pace di quanti hanno dato inizio alla rivolta di due anni orsono. Facile ipotizzare che, quantomeno nel breve periodo, le scelte politiche avranno più spazio per un sistema governato con strumenti a crescente ispirazione populista.

 

Nonostante gli esempi di Turchia, Malesia e Indonesia possano mostrare un’alternativa percorribile, in un paese dove il 40% della popolazione vive al di sotto, o in prossimità, della soglia di povertà, le scelte economiche appaiono obbligate e il “grado di laicità” dei governanti, in questa delicatissima fase della vita dell’Egitto, incide comunque poco sulle decisioni che potranno essere prese.

 

Per approfondire: "L'Egitto e i suoi Fratelli" [scaricalo su iPad]

 

Note:
(1) Magda Kandil,“The Egyptian economy after the revolution: managing the creative destruction”, Legatum Institute, September 2012
(2) Giovanni Mafodda, "La primavera egiziana presenta il conto", Limes 3/2011 "(Contro)rivoluzioni in corso"
(3) Mohammed Samuri, "Egypt looming fiscal crisis", Carnegie Endowment for International Peace, June 5 , 2012
(4) "Morsi warns about dangers to Egypt economy”, The Courier Mail, Dec. 30, 2012
(5) Andrew Bowman, "Egypt: cancelled debt issue and downgrade cements poor december", Financial Times, Dec. 27, 2012
(6) Heba Saleh, "Egyptian pound sinks to record low", Financial Times, Dec. 30, 2012
(7) Borzou Daraghi e Heba Saleh, "Egypt’s Morsi preaches optimism for 2013", Financial Times, Jan. 1, 2012
(8) Al-Masry Al-Youm, "Nour Party divieded on IMF loan", Aug. 25, 2012
(9) Sarah A, Topol,"Timing of Egypt tourmoil Couldn’t be worse for economy", Businessweek, Nov. 26, 2012
(10) Marwa Awad, "Qatar says to invest 18 billion in Egypt economy", Reuters , Sep. 6, 2012
(11) Tim Arango, "Turkey and Egypt seek alliance amid region’s upheal", The New York Times, Oct. 18, 2012
(12) Ahram/Reuters, "Egypt received sizable chunk of Saudi aid since 2011: IMF", Sept. 19, 2012
(13) Camilla Hall, "Gulf banks ready to invest in Egypt", Financial Times, Dec. 19, 2012
(14) Hakmed Heikal, "Business can rekindle Egypt’s revolution", Financial Times, Jan. 22, 2012